23 marzo 2018

INTERVISTA IMPOSSIBILE A VITALIANO BRANCATI. Una chiacchierata sull’Amore




Per quanto si possa parlare di un Autore, per quanto si possano leggere e commentare le sue opere, si ha sempre la sensazione che gran parte del suo pensiero rimanga nell’abisso dell’inesprimibile, del non-detto. Questa pseudo-chiacchierata con Vitaliano vuole rubare all’ombra ancora un piccolo lembo del suo pensiero e offrire alla luce ancora una parte della sua concezione della Vita.
Sono in sala d’attesa nell’anticamera dei cieli, circondata da una gran folla. Tutti chiedono di Vitaliano. Mentre ripasso con lo sguardo ancora qualche appunto sulla sua vita col block notes fra le mani, mi meraviglio che così tanta gente lo conosca. Scruto gli astanti: sono giovani, perlopiù uomini fra i venti e i quarant’anni. Molti hanno un aspetto curato e sicuro di sé, come predatori all’attacco saettano le donne della sala con sguardi maliziosi; altri, al contrario, sono timidi e insicuri; i loro sguardi sembrano creature spaurite che si aggirano per una radura senza la protezione della madre né di una fronda che faccia loro ombra, ansiosi di nascondersi dietro il primo cespuglio che si offra loro.
Le due categorie fanno gruppo ciascuna da una parte diversa della sala. Un’immagine grottesca e curiosa: sembrava che un capriccioso Mosè si fosse divertito a separarle come le acque del Mar Rosso, la Baldanza da un lato e la Pavidità dall’altro.
Ad interrompere le mie riflessioni sul curioso campionario umano, da dietro una porta, come un ronzio di una voce irata, ma non di un iracondo per natura, bensì di qualcuno che, punzecchiato oltremisura, perda d’improvviso la pazienza, e forzi perciò l’eleganza della sua voce in un momentaneo e attoriale sfogo d’ira: «Ma insomma, basta con queste richieste! Tutto credevo di essere ricordato dopo la morte, tranne che come il mental coach per la conquista dell’altro sesso! Selezionate, selezionate!».
Realizzo d’improvviso l’accaduto e mi si fa chiaro il motivo della copiosa presenza maschile nella sala. Un uomo sbuca da una porta a vetro, scruta con lo sguardo nella mia borsa la pila di libri dell’autore e, indovinato il block notes fra le mie mani chiuse, mi invita ad entrare.

B. Ah, una donna! (Tira un respiro di sollievo). Almeno lei non mi farà richieste assurde su come diventare il perfetto Don Giovanni!

V. (Chiudo la porta alle mie spalle e saluto con una punta di timidezza. Dalla penombra affiorano due occhi, dietro le cui fessure intravedo un abisso, penetranti e dolci, sovrastati da due sopracciglia perfette, scure e nette che, dopo un attimo di distrazione, rimbalzano il mio sguardo sulle iridi scure. E mi trovo occhi negli occhi con Vitaliano. Lui non disturba il mio silenzio. Mentre lo osservo sul suo volto si sovrappongono più volti: quello seducente di un arabo dall’incarnato e dalle iridi scure; quello elegante di un normanno dai lineamenti quasi filiformi sul viso sottile e aggraziato; quello caldo di un siciliano dalla fronte alta e i baffi scuri sulle labbra che, ora, accennano un sorriso.)

B. La gente crede che lo scrittore sia un prete sul pulpito, e invece è solo un fedele che ha il coraggio di levare la sua preghiera più forte degli altri.

V. Oggi non si solleva nemmeno più lo sguardo al cielo, perché non si hanno preghiere da levare. O a volte si chiede qualcosa, ma non è ciò che si vorrebbe realmente, presa in prestito com’è dal commerciante di sogni di turno. Così si cercano, più che guide che dicano cosa fare, uomini che prima ancora suggeriscano cosa desiderare.

B. Non mi dica che gli uomini non desiderano più nemmeno le donne!

V. La maggior parte crede di desiderarle, ma le concupisce soltanto, cosicché una volta avutele, viste e toccate, non sa più che farsene e va alla ricerca di emozioni sempre nuove, che diventano vecchie e consunte in un batter d’occhio.

B. (Sorride con un respiro ruvido che sfrega in fondo alla gola come un archetto sulle corde tese di un violino, senza voler minimamente celare una soddisfazione in procinto d’esplodere.) E poi lo criticavano il povero Antonio! “De-siderare”, signorina, dal latino DE- : rafforzativo e SIDERARE, da sidus, sideris: stella. “Fissare attentamente le stelle”, tenere lo sguardo fisso su qualcosa che è distante da noi, alto e quasi irraggiungibile e per ciò stesso affascinante, che rinnova un desiderio e un’emozione costante.

V. Meravigliosa etimologia, signor Brancati, ma prima o poi Antonio doveva “raggiungerla” quella donna!

B. E cosa vuol dire “raggiungere una donna”? Congiungersi con lei? Tanti uomini portano a letto le donne, vi fanno perfino dei figli, ma non le hanno mai raggiunte.

V. (Sgrano gli occhi in segno di stupita approvazione, poi dalle mie sopracciglia aggrottate trapela una profonda delusione). Ma fare l’amore è meraviglioso! (L’esclamazione perde un po’ di foga nelle sue ultime lettere, mescolata com'è ad una punta di imbarazzo). Nobile, profondo sentimento l’amore, che ci fa gioire fin nei meandri dell’anima, e ci eleva. Ma rimarrebbe solo una contorsione del cuore, uno spasimo della mente se non si “facesse” concreto... fare l’amore... è l’amore che si fa odore dolce su per le narici, si fa pelle sotto le dita, si fa suono negli orecchi e sapore dell’altro sulla lingua e...

B. ...e sensazione di vederlo in persona, l’Amore, nell’immagine della donna che ami. (Esita).
Lei crede che Dante sarebbe riuscito ad amare così a lungo e con quell’intensità Beatrice, se l'avesse sfiorata anche solo una volta?

V. Ma Dante aveva nove anni al suo primo incontro con Beatrice! E la seconda volta in cui la incontra, dopo quasi dieci anni, lei gli nega persino il saluto. Non era amore quello! L’amore diventa tale solo se ricambiato, prima d’allora è solo ossessione, venerazione o contemplazione. Anche un’opera d’arte ci rapisce con la sua bellezza e ci eleva, ci rivela grandi verità. Che differenza c’è allora fra una donna e un quadro?

B. (Sospira). Vecchio dilemma. Ha colto nel segno, signorina. Era come quadri in un museo che ci piaceva ammirare le donne. Giovanni Percolla, Muscarà, Scannapieco... i marciapiedi di via Etnea erano per loro le pareti del Louvre, del Musée d’Orsay. Guardavamo quei visi dolci, quelle gambe e quelle rotondità coperte dalle vesti come Veneri del Rinascimento, e le donne a Viareggio come fossero le bagnanti di Renoir...

V. (La mia bocca si curva in un sorriso d’assenso). Se tutto quello che ci circonda fosse rimasto solo un’idea nella mente di Dio, nulla esisterebbe. Un’idea, infondo, è nulla.

B. Lei crede in Dio, dunque. La invidio.

V. Non so se Dio esista. Ma mi piacerebbe che fosse così. Anche lei cercava Dio. Quel viaggiatore dello sleeping n. 7, i tormenti di Ermenegildo inginocchiato in chiesa accanto ad Antonio... ecco, posso rileggerle un suo passo?

B.  (Sfila Il bell'Antonio dalle mie mani, e prima ancora che io gli indichi quale riga leggere), esordisce:

È possibile che le parole cielo, paradiso, giustizia divina, pace eterna non corrispondano a nulla di reale? Loro non corrispondono a nulla, proprio loro che sono le parole più belle della nostra vita? È possibile che il nome Gesù Cristo, ecco lo ripeto: Ge-sù Cri-sto, sia il nome di un povero morto e a pronunziarlo non si fa voltare nessuno né in questo né in un altro mondo? Ecco, lo ripeto ancora: Gesù Cristo, Ge-sù Cri-sto, il nome di un matto dunque, vissuto duemila anni fa, che si figurava in buona fede di versare sangue e morire solo per una sua generosa accondiscendenza alla debolezza umana, e di lasciare in piedi i soldati che lo fustigavano e le torri della città che assisteva al suo supplizio, solo frenando a stento la sua onnipotenza? Gesù Cristo, un pietoso allucinato con la testa sempre arrovesciata a guardare il cielo, di cui in realtà ignorava la forma, la composizione e la luce, ma che egli credeva ormai la sua reggia, vedendovi nel mezzo un suo trono dorato alla destra di un assai curioso Padre… E dunque la sera di giovedì, quando pregò nell'orto ripetendo nel modo più tenero questa parola “Padre”, dall'altra parte non c'era nessuno ad ascoltarlo? E quando, sulla croce, promise al ladrone convertito di portarlo in cielo con sé, povero ladrone, come dovette bestemmiare quando s'accorse che alla penombra dell'agonia succedeva un buio sempre più fitto e senza speranza!… E dunque per noi uomini, ci chiamiamo Ermenegildo Fasanaro o Gesù Cristo di Nazaret, non c'è che buio e ignoranza? E, se andiamo a scuola, una rassegnata filosofia che si accontenta di chiamare “verità” le nostre disgraziate domande senza risposta?

(L’interrogativo rimane sospeso come un equilibrista sul filo teso nel tendone di un circo. Silenzio)

V. Beh! Dio o D’io? In ogni d-io c’è un “io”, caro Brancati. Dio è il mondo visto dalla mia prospettiva, il significato che do a quello che mi circonda. Dio è nient’altro che quel senso.

B. Ecco, io credevo che fosse l’Amore il senso. È per questo che Antonio non sfiorò la sua Barbara: non voleva che lei fosse parte di tutto il resto... della materia che degrada e sfiorisce, della carne che invecchia e marcisce...

V. Quella Bellezza... quella che nei suoi romanzi lei scrive con la “B” maiuscola.

B. Esatto. Non sarebbe bastato l’acme di un orgasmo della carne per raggiungerla. Così gli diedero dell’ “impotente”.

V. Chi ama la Bellezza pura si sente sempre un po’ impotente: possiamo ammirarla in un dipinto, scorgerla in una statua, annidarla in una riflessione filosofica, corteggiarla in un’alba, in un uomo, in un tramonto, ma non abbiamo mai la sensazione di raggiungerla veramente.

B. Questo è l’essere umano: tensione, attenzione, intenzione... tutto è un tendere, insomma. Abbiamo sempre bisogno di tendere le braccia al di sopra di noi per rimanere in piedi, per ergerci sulle cose e sul mondo.

V. E ora che è qui? In questo Oltretomba su cui gli uomini fantasticano a dismisura... l’Iperuranio, il luogo della pace, della salvezza, il coacervo indifferenziato delle idee, dei sogni e dei pensieri... sente di aver finalmente sfiorato ciò che ha inseguito per tutta la vita?

B. (Solleva le sopracciglia come un bambino cui si scopre una bugia, poi disegna fulminea con lo sguardo una linea obliqua e posa i suoi occhi sul pavimento). Ora che sono qui... mi mancano i gelati di Palermo, la zuppa di pesce della Zì' Teresa a Napoli, la bistecca di Salvini a Firenze, il silenzio del Canal Grande, l'aria fresca dei fiumi dell'Alto Adige, le vasche da bagno dell'Hôtel Coccumela a Sorrento

V. (Adesso sono io a soffiare il mio sorriso dentro un sospiro mesto) Tutto quello che faceva trasalire il petto di gioia a Marietta in quel suo ultimo romanzo...

B. Ecco, ora che sono da questa parte dico: siate come lei... sentite le vibrazioni della Vita in ogni corda dei  vostri sensi; non perdetevi nell'eccesso della razionalità. Quello che si registra nella mente è solo lo spartito... ma la Vita è musica. Ecco, da scrittore mi sono sentito come un musicista che compone senza aver mai sfiorato il tasto di un pianoforte, la corda di un violino...

V. (Distolgo lo sguardo dal suo viso per lasciarlo solo con la sua Nostalgia, con discrezione, come uno che, costretto nello stesso luogo con due amanti, voglia lasciarli indisturbati. I miei occhi sono catturati dalla luce di una finestra alle sue spalle, da cui un azzurro turchino irradia forte la luce solare. Il cielo è terso al punto tale che i vetri sembrano non reggerne il peso cromatico e, dissoltisi, brillino in minutissime schegge danzanti insieme al pulviscolo luminoso. Una risata ovattata d’improvviso vi fa da melodia. Allungo la vista e nella nebbia luminosa pian piano si materializzano due figure. Riconosco Antonio, dal volto olivastro, affumicato potentemente dalla barba, ma delicatissimo e quasi unto di lacrime al di sotto degli occhi, bello, proprio come Vitaliano l’aveva descritto. Scompigliati dopo la giravolta, i capelli neri di Barbara, attraversano il viso di lui come una nube passeggera e scura il sole di primavera. Antonio prende il viso di lei fra le mani e con gli occhi raggianti di felicità stringe le labbra sulle sue. Un bacio impetuoso, lungo e profondo come uno che si tuffa da uno scoglio e viene inghiottito dal blu... riemerge e apre gli occhi. L’abbraccio che segue è così stretto che vedo le due sagome diventare un tutt'uno, fra loro, con l’azzurro, con la luce).




20 marzo 2018

Trovatelli e Ruota di Pietraperzia: Cenni storici - 1^ Parte

CENNI STORICI SULLA NASCITA DELLA RUOTA 


Si racconta che Papa Innocenzo III, in seguito alla visita di alcuni pescatori che gli avevano mostrato le loro reti, tratte dal Tevere, piene di piccoli cadaveri, decise di prendere una posizione in merito: nel 1198 istituì, per la prima volta in Italia, la così detta "Ruota". La ruota volle essere la risposta all’infanticidio dei figli indesiderati.
Consisteva in un meccanismo  di legno a forma di cilindro, ruotante su un asse verticale, diviso in due parti chiuse e munite di uno sportello; le parti combaciavano con una apertura posta sulla cinta esterna dell'istituto e permettevano di collocare il bambino abbandonato, senza essere visti. Facendo girare la Ruota, la parte che conteneva il bambino, veniva immessa all'interno dove, aperto lo sportello, si poteva prelevare il bambino; vicino alla Ruota vi era un campanello che avvisava una guardiana di turno nota come "Rotara", dell'arrivo del bambino. 


La Ruota degli Esposti dell’antico ospedale di Santo Spirito a Roma
La prima Ruota però nacque in Francia nel 1188 presso l'Ospedale dei Canonici di Marsiglia, per poi diffondersi anche in Grecia e Spagna.
A Pietraperzia, nello stesso periodo, le cose non andavano diversamente e dei neonati abbandonati e mai recuperati non c’è riscontro. Il primo trovatello battezzato di cui si ha notizia risale al 12 dicembre 1602 ma non si conosce il luogo del suo ritrovamento.
La zona indicata del primo ritrovamento,14 marzo 1607, si individua nei pressi della Chiesa San Rocco, allora fuori del centro abitato.
Nella tradizione comune, i Sacerdoti avvicinati da genitori d’un neonato per impartirgli il sacramento del battesimo, dopo avere declinato e trascritto nel registro dei battesimi le proprie generalità, chiedevano ai presenti, quelle dei genitori e il nome da dare al battezzando. Per i trovatelli si seguiva la stessa procedura e in assenza dei nomi dei genitori inventavano le formule più disparate, come quelle già riportate nei tanti altri documenti: “figlio dello Spirito Santo”; “figlio di meritrice”; “figlio di donna libera”; “figlio di genitori sconosciuti”; “trovato davanti … e seguivano le precisazioni e tante altre diciture consimili.
Il 21 marzo 1756 in uno dei tanti atti di battesimo, a cura del Sac. Don Pietro Giarrizzo e Nicoletti Cappellano Sacrale di questa Ven. Chiesa Madre S. Maria, si legge per la prima volta “ho battezzato un bambino esposto la notte scorsa nella ruota dei proietti di questa città” dicitura che non ripete, undici giorni dopo, nel successivo documento del 2 aprile 1756, redatto dallo stesso Sacerdote, ma afferma: “ho battezzato una bambina sub condizione, trovata davanti la porta della Chiesa S. Maria della Cava nelle ore mattutine, nata verosimilmente otto giorni fa”.
Il 20 marzo 1759 il Cappellano Don Giovanni Emma battezza una bambina trovata nella ruota di questo ospedale.
Il 9 aprile 1773 il Sacerdote D. Michele Gregorio, battezza un bambino trovato in questa ruota di orfanotrofio.
il 22 aprile 1780 il Sac. Don Vincenzo Vitale battezza un bambino trovato, nella ruota di questo ospedale.
4 dicembre 1782 l’Arcipresbitero Michele Ramistella battezza una bambina trovata nella ruota di questo ospedale.
Tutte le informazioni sulla nascita, o eventuale ritrovamento del neonato, arricchiti da tutti i particolari possibili, venivano forniti al Sacerdote, dalla persona, precedentemente identificata durante il rito e veniva subito annotata nel relativo libro dei battesimi.
Dai tanti riscontri finora effettuati nel 1756 non si è rilevata l’esistenza di una struttura pubblica chiamata ruota dei proietti e nemmeno nel 1759 ruota dell’ospedale.
Ruota di orfanotrofio” citata nel 1773, ruota d’ospedale del 1780 e del 1782 sarebbero state i toccasana non solo del 1773 ma di tutti gli anni a venire, purtroppo, anche di queste citate strutture non si è riscontrata traccia.
In tutto il 1700, e in particolare nella prima metà del secolo, si riscontra il maggior numero di trovatelli abbandonati, all’interno e alle periferie dell’abitato.
Sarebbe veramente strano pensare, anche se non impossibile, che genitori, in presenza di strutture pubbliche, fatte per ridimensionare il loro rimorso e soprattutto per alleviare le sofferenze dei neonati, scegliessero di abbandonarli a cielo aperto o chi sa dove.
L’abbandono a cielo aperto della propria creatura, era sicuramente frutto di sconforto, di disperazione assoluta e della mancanza di strutture ricettive idonee all'accoglienza.
Luoghi solitamente destinati ad abbandonare i figli indesiderati erano le porte delle case di famiglie benestanti o nelle vicinanze di chiese e conventi. A metà 700 almeno quattro ritrovamenti furono fatti davanti la casa di Rosaria Montalto, Forse nota come donna pia e caritatevole. Un altro luogo prescelto dalle madri disperate era la chiesa della Cava, perché lontano dall'abitato.


Giovanni Culmone




continua...

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15 marzo 2018

Invito alla lettura: Storie fantastiche di gente comune



Buongiorno amici miei, oggi parliamo di un romanzo pieno di spunti su cui riflettere, un romanzo che ti tiene incollata alle sue pagine per ore e che a volte è capace di commuovere e a volte ironico per le storie dal sapore agrodolce.
Il titolo del libro in questione è: "Storie fantastiche di gente comune", dell'autore esordiente Stefano Valente.

L'opera narrativa si snoda in tre racconti: nel primo incontriamo Paolo, un ragazzo che decide di seguire il proprio cuore, i propri valori ed il proprio coraggio e si arruola nell’aeronautica militare, andando contro la volontà dei suoi genitori che lo volevano chirurgo. Paolo non si perde d'animo, continua a inseguire i suoi sogni e la sua strada non smettendo mai di credere nei suoi ideali, anche quando per amore sarà costretto ad abbandonare l'uniforme.

Nel secondo racconto la protagonista è Chiara, una ragazza intelligente e colta, laureata in chimica farmaceutica con il massimo dei voti e con una sfrenata passione per la chimica; passione che condivide con il fratello Alessandro, ricercatore per una grande ditta farmaceutica produttrice di "Athena", un farmaco in grado di curare il Parkinson e altre malattie neuro-degenerative. Ma all'improvviso la nostra protagonista, si troverà a dover affrontare una realtà raccapricciante che rischia di portare alla morte migliaia di pazienti, e che la metterà di fronte a scelte difficili, soprattutto quando c'è in ballo l'amore per chi ha il tuo stesso sangue.


Il terzo racconto ci porta a conoscere Matteo, un giovane brillante avvocato penalista, che a seguito dell'ennesima causa vinta, scopre di aver fatto assolvere il vero colpevole.
La sua sete di giustizia, la passione e l'amore che mette nel suo lavoro, lo porteranno alla giusta soluzione, in una strada piastrellata da falsi eroi e pericolosi colpi di scena.

Il messaggio che l'autore vuole trasmettere con questi tre racconti, che appunto narrano di gente comune, è che ognuno di noi è l'eroe di se stesso, nulla di straordinario, nella realtà di oggi un eroe è qualcuno che non ha paura di mettersi in gioco, di emergere, anche se a volte tutto ciò ci porta a pagare un prezzo troppo caro per una solida integrità morale assecondata dai propri valori e dal coraggio delle proprie scelte.

La tecnica narrativa usata è particolare, in quanto ogni racconto è affidato ad una voce
narrante.
Lo stile è fluido e ricco di particolari che si incentrano nella vicenda.
Un piccolo capolavoro letterario. Ringrazio con tutto il cuore Stefano Valenti che per l'appunto mi ha dato la possibilità di leggere come dire, questo piccolo manuale di sopravvivenza morale.

Marika Mendolia