06 agosto 2018

Escursione Archeologica a "CUDDARU di CRASTU" Pietraperzia

Cuddaru di Crastu – Pietraperzia – Insediamento Siculo-Sicano (foto di Antonio Caffo)

Avevo sentito parlare di "Cuddaru di Crastu" ma non mi era mai capitata l'occasione di visitare questa località che si trova a sud-ovest dell'abitato di Pietraperzia. La prima volta che la potei visitare fu il 7 novembre 1974 assieme al signor Liborio Alletta ed un'altra persona di cui non ricordo più il nome e ne riportai una profonda impressione, tanto che negli anni successivi vi ritornai ancora per cercare di meglio approfondire le mie conoscenze.
A Milano, dove abito, andai in cerca di notizie sui primi abitatori della Sicilia ed in modo particolare sui Siculi e sui Sicani, perché secondo quanto poi pubblicato da Antonio Lalomia e Rosario Nicoletti, Cuddaru di Crastu non è altro che la Krastos Sicana che ancora oggi conserva importanti ed imponenti vestigia dopo 3000 anni. Le antiche fonti ci fanno conoscere le sedi di insediamento di queste popolazioni preelleniche della Sicilia, ma allo stato attuale gli storici e archeologi moderni non sembra siano giunti a conclusioni univoche. Non ci sono, o non si conoscono, documenti che dicano che "Cuddaru di Crastu" sia l’antica Krastos Sicula o Sicana che altri collocano a Castronovo di Sicilia o ancora tra Alcara Li Fusi e Longi.
I primitivi abitanti di Cuddaru di Crastu si fanno risalire al 1270 anni a.C. (sic).
Questi popoli ebbero le loro colonie, coltivarono la terra, ebbero le loro leggi e lentamente acquistarono una forma di civiltà prima dell'arrivo dei Greci. — Abitarono in villaggi fatti di capanne, di cui sono state rinvenuti molti resti, ogni villaggio aveva un suo capo e amministrava la giustizia ed era a capo di una milizia. Le loro abitazioni erano in prevalenza site sulle cime dei colli in modo da potersi difendere meglio dagli attacchi esterni. 

Cuddaru di Crastu – Pietraperzia (foto di Antonio Caffo)

Le zone dove essi abitavano erano in prevalenza boscose ed offrivano abbondante selvaggina, frutti e legna per le loro capanne, ma coltivavano anche la terra o almeno conoscevano il grano selvatico che cresceva spontaneo nelle nostre contrade.
La collina di "Cuddaru di Crastu" dove è ubicata la fortezza non è molto agevole da raggiungere. Dopo avere lasciato la macchina in fondo alla "trazzera" si prosegue a piedi in direzione Fastuchera. Il terreno, quando vi andai, era arato di fresco e si faceva molta fatica a salire, ma ci portò a scoprire moltissimi "cocci" di ceramica di varie epoche, specialmente greca con vari disegni illeggibili a causa della pezzatura minuta dei cocci. Assieme a questi trovammo diversi "raschiatoi litici", punte di frecce in selce ed una triangolare di bronzo. Prima di salire sulla sommità, mi fu mostrato un enorme masso che era rotolato, chissà in quale periodo, dalla fortezza e vi si scorgevano ancora dei gradini ritagliati nella roccia, che ritrovai poi uguali a mezza costa da dove s'era staccato il masso. Dopo d'esserci arrampicati fini lassù in cima, trovammo uno spiazzo abbastanza ampio dal quale si gode un panorama superbo ed incantevole. 

Monte Grande – Valle del Salso – Pietraperzia (foto di Antonio Caffo)

Da qui si scorge tutto il corso del fiume Salso da Capodarso fino al Canneto ed oltre. La scala ritagliata nella viva roccia non era l'unica opera di quei nostri lontani avi, ma vi erano molte celle abbastanza ben conservate. Altra opera era una specie di pozzetto, anche questo scavato nella roccia per la raccolta delle acque o altro.
Lo spettacolo è molto suggestivo, specialmente al tramonto del sole quando esso proietta gli ultimi suoi raggi e "Cuddaru di Crastu" assume l'aspetto in lontananza di un ariete coricato con la testa rivolta verso sud.
La toponomastica di questa contrada conserva ancora l'etimologia saracena, pertanto per chi voglia conoscere quale sia stato il nome originario del luogo rimane deluso.
Circa il toponimo di "Cuddaru di Crastu" per la prima volta si trova menzionato da Rosario Nicoletti e Antonio Lalomia in “Storia del territorio di Pietraperzia dalle origini agli Aragonesi” - Caltanissetta, 1982. Fra Dionigi parlando di questa località dice: "fra mezzogiorno e ponente, vi sono le vestigia di un fortissimo castello, quasi due miglia distante da Pietraperzia detto il Castellaccio, posto in cima ad una collina, in cui si saliva per una scala scolpita in viva pietra, come adesso si ammira vicino la Fastuchera ove si trova vari e diversi monumenti di antichità ..." (fra Dionigi, Relazione critico storia di M.SS. della Cava, Palermo 1776, pag. 32).

Monte Grande – Tombe a grotticella – Pietraperzia (foto di Antonio Caffo)

Per raggiungere "Cuddaru di Crastu" bisogna prendere la SS.191, la Pietraperzia Caltanissetta via Besaro e giunti in località "Iardiniddu" (giardinello), si svolta a sinistra in direzione Monte Grande (lu Muntiranni). Giunti in località Nagargia (dall'arabo al-Naggar falegname, carpentiere o ana-Hagar, spelonga, cavema), si prosegue in direzione Fastuchera (dall'arabo Fustaq, pistacchio). Questo triangolo tra Donna Ricca, Monte Cane, Fastuchera ha dato molti reperti archeologici della cultura di Castelluccio e vi si notano ancora molte tombe a grotticella.

Tramonto da Monte Grande (foto di Antonio Caffo)

Guardare queste colline verso il tramonto sembra che qualcuno di lassù scruti i nostri passi e cordialmente agita la mano in segno di un cordiale arrivederci.



Tratto da un articolo di Lino Guarnaccia in:
“L’informatore centro-siculo” Anno VI luglio 1990







30 luglio 2018

Invito alla lettura: ZERO K di Don DeLillo




Zero K è l’ultimo romanzo del grande scrittore statunitense Don DeLillo. Il titolo fa riferimento allo zero Kelvin, la temperatura più bassa teoricamente raggiungibile e tratta il tema dell’immortalità attraverso la crioterapia, il congelamento dei corpi e delle coscienze in attesa di un futuro in cui poter godere una nuova vita grazie ai progressi della scienza.
La storia è narrata in prima persona da Jeffrey Lockhart, figlio del magnate Ross Lockart e principale finanziatore della clinica segreta realizzata in un luogo sperduto del Kazakistan e che offre il servizio d’ibernazione. Ross svela al figlio il progetto Convergence e lo prega di accompagnarlo alla base tecnologica per dare l’ultimo saluto ad Artis, la matrigna gravemente malata, sottoposta alla terapia di pre-ibernazione prima dell’ingresso nella capsula conservativa.
Jeffrey è sconcertato e turbato dalla rivelazione, e fin dalle primissime pagine è possibile cogliere l’attrito esistente tra padre e figlio, (i motivi di tanto astio saranno svelati in seguito). Jeffrey Lockhart incarna nel libro lo scetticismo sulla fede in un’altra vita e l’opinione che la scienza sia fonte d’illusioni quanto la religione. È forte il diverso approccio dei due uomini nei confronti della morte ma anche della vita e di come spenderla.
Il romanzo è diviso in due parti ben distinte: la prima è ambientata nella clinica segreta che ospita i pazienti sottoposti al processo di crioconservazione, la seconda si svolge a New York e ha come protagonisti il figlio Jeffrey, la sua compagna attuale Emma e Stack, il figlio adottivo di lei.
Si fa fatica a passare dall’una all’altra parte, la seconda ancora più visionaria della clinica dai corridoi labirintici con porte color pastello che non portano da nessuna parte.
Jeffery dà voce a tutte le sue paranoie, tipo controllare il gas, controllare tasca-chiavi-portafoglio o giocare con le parole, stressandole fin nella singola lettera. E tra le pagine appaiono i ricordi d’infanzia, la morte della madre, i dubbi sul funzionamento dei loculi surgelati, dei trapianti di organi e tessuti, degli individui che si risvegliano “rimessi a nuovo” o il senso dell’immortalità: ma è proprio vero che vogliamo vivere per sempre?
Perché l’obiettivo di Convergence è ottenere il controllo sulla morte, conquistare la libertà di decidere se non quando nascere, almeno quando morire, confidando nel potere supremo della scienza. Al risveglio, i nuovi corpi saranno sani, giovani, perfetti, e parleranno una lingua nuova, unica e universale.
Lo stile minimale di DeLillo è ancora più spoglio del solito, lo definirei gelido e asettico come l’ambientazione. Confesso che ho preferito di gran lunga la prima parte, più interessante e accattivante, trovando la seconda troppo sconclusionata anche nel linguaggio adottato. Mi è piaciuto il personaggio di Jeffery in cui ho ritrovato l’approccio alla vita cinico e sprezzante dei giovani d’oggi, senza speranza e arresi a un futuro senza prospettive. Non si direbbe sia un romanzo scritto da un ottantenne.
DeLillo non è uno scrittore facile, ho letto tre dei suoi diciassette romanzi e ogni volta mi è rimasto in bocca un pizzico di delusione. Zero K non mi ha convinto completamente ma leggere questo grande autore è comunque un’esperienza che consiglio.

Fabiola Gravina



23 luglio 2018

Testimonianze: L’insediamento delle suore salesiane a Pietraperzia




ln occasione del nostro viaggio a Pietraperzia del 2005, padre Bongiovanni, ci fece omaggio dell’opuscolo Santa Maria di Gesù. Storia di una Parrocchia in cammino, fatto stampare nella ricorrenza del cinquantesimo anniversario di istituzione della Parrocchia.
Gli articoli contenuti nel libretto ci riportarono alla memoria, con qualche punta di emozione, eventi riguardanti la storia del nostro paese che avevamo vissuto. Fu specialmente quello intitolato Le Figlie di Maria Ausiliatrice. Casa di Pietraperzia che attirò la nostra attenzione, perché avevamo partecipato direttamente alle vicende relative alle prime fasi dell’insediamento delle salesiane a Pietraperzia.
L’articolo in questione, pur con qualche imprecisione e qualche omissione, descrive l’ingresso delle suore nel loro primo piccolo “convento” e a distanza di quattro anni nella loro sede definitiva di via Marconi.
Le Figlie di Maria Ausiliatrice vennero a Pietraperzia per essere state nominate eredi del canonico Eligio Amico affinché fondassero un istituto per ragazze orfane e abbandonate.
Nel settembre del 1950 arrivarono le prime tre suore e trovarono una sistemazione in una piccola casa presa in affitto in via Garibaldi 65.
L’articolo descrive l’arrivo delle suore nella casa ancora disadorna e cita i nomi delle persone - tra le altre la signora Antonietta Cucurullo Nicoletti, le sorelle Giovanna e Giuseppina Bevilacqua - che si adoperarono con zelo nell’accoglierle, accompagnarle e agevolarne la sistemazione con la fornitura di arredi e suppellettili.
Considerata la provvisorietà e l’inadeguatezza di questa prima dimora, furono iniziate trattative da parte della Casa Madre Salesiana di Messina per l’acquisto de “lu Statutu”, come comunemente veniva denominato dai pietrini, l’attuale sede dell’Istituto Comprensivo “Vincenzo Guarnaccia”, ritenuto sede più idonea alle necessità di vita e di attività delle suore.
Unica proprietaria dell’Istituto, era la Cassa Rurale ed Artigiana “Maria SS del Rosario”; fondata nel 1908 dai sacerdoti Calogero Amico e Michele Carà.
La costruzione dell’imponente edificio, venne iniziata nel 1925, per adibirlo ad Istituto educativo e di avviamento professionale per ragazzi poveri. L’opera tuttavia non fu portata a termine a causa della morte dell’allora presidente della Cassa Rurale, il sacerdote Calogero Amico.
All’epoca dell’insediamento delle salesiane a Pietraperzia, la Cassa Rurale ed Artigiana “Maria SS del Rosario” era presieduta da nostro padre: Salvatore Giordano.


Le trattative con la Casa Madre Salesiana di Messina vennero condotte da nostro padre, assieme al Presidente delle Casse Rurali della Regione Sicilia, l’avvocato Arcangelo Cammarata, che conoscemmo personalmente per essere venuto più volte a casa nostra in quella occasione.
«Legato a quelle vicende conservo un ricordo», dice Salvatore, «che mi ha sempre accompagnato fino ad oggi. Nel corso delle trattative per l’acquisto dell’Istituto da parte delle suore salesiane, un giorno, allora poco più che decenne, mi capitò di accompagnare mio padre e il Presidente Cammarata, presso la sede delle suore di via Garibaldi. L’incontro si svolse e si concluse in un clima cordiale. Ma la cosa che mi è rimasta maggiormente impressa di quella circostanza è la lezione educativa che mi diede mio padre.
Le suore ci offrirono caffè freddo in bicchieri di vetro. Al mio turno, la suora che ci serviva orientava verso di me il vassoio in modo da indurmi a prendere il bicchiere meno pieno. Io invece, ignorando il tacito invito, presi uno dei bicchieri colmi. Mio padre che aveva seguito la scena non mancò, una volta soli, di farmi notare il mio comportamento così poco dignitoso».
Fu nostro padre che, durante un successivo incontro in via Garibaldi, vista la precarietà nella quale vivevano le suore, prima ancora che si concludessero le trattative per l’acquisto, propose una sistemazione più adeguata, offrendo loro di occupare l’edificio stesso, “lu Statutu” appunto.
Per rendere agibili alcune parti interne del fabbricato, venne assunta una squadra di muratori, capomastro il signor Vincenzo Falzone, che riparò anche il tetto della parte destinata alle suore. Giuseppe Rabita artista falegname di più generazioni seguì i lavori di sua competenza e tra i suoi aiutanti portava con sé Saro Bauccio (che poi fu sindaco di Pietraperzia) e me stesso.
Così le salesiane, usufruendo della disponibilità di nostro padre, presero possesso del fabbricato ancora prima della stipula del compromesso. Le suore apprezzarono molto il generoso gesto di cui gli rimasero sempre riconoscenti.
«L’ingresso delle suore all’Istituto», dice Maria, «fu una festa. Seguì l’apertura di laboratori di ricamo, cucito…; le ragazze che frequentavano apprendevano l’arte del ricamo a tombolo, che molte esercitarono poi come attività per guadagnare qualcosa. L’Istituto divenne l’oasi della gioventù femminile pietrina: vi si tenevano riunioni e feste com’è nello stile salesiano.
Nel seguito delle trattative relative alla compravendita furono compiuti dei viaggi da nostro padre presso la Casa Madre Salesiana di Messina; qualche volta l’accompagnò anche la mamma. Ricordo la bella amicizia che si strinse con suor Santina Pirrelli, allora Superiora della Casa di Pietraperzia, che durò sempre, la quale citava mio padre come il “nostro benefattore”».


Malgrado gli sforzi e la disponibilità, i salesiani non comperarono l’immobile. Il Rettore Maggiore dei Salesiani e altre personalità dell’Ordine, esaminando più volte l’Istituto, ritennero che fosse smisurato per le esigenze di Pietraperzia; decisero di costruire un nuovo istituto più adatto per l’esercizio delle loro attività.
Venne siglato un contratto d’affitto che durò fino al completamento del nuovo edificio. Nel 1954, le Figlie di Maria Ausiliatrice, entrarono nell'attuale Istituto intitolato al sacerdote Eligio Amico
«L’aiuto di mio padre verso le suore continuò», conclude Maria, «le suore per gratitudine regalarono a mia madre delle tende bianche ricamate a mano da loro stesse. Mio padre non volle che il suo nome venisse scritto sulla targhetta dei benefattori».
Quelli che abbiamo scritto sono solo alcuni episodi che riguardano l’avvenimento di una realtà straordinaria che, a ripensarci, ancora ci commuove.


Maria e Salvatore Giordano