07 settembre 2018

IL BANDITO TESTALONGA. LA RESISTENZA DI UN VINTO.


Un libro di ANNA MAROTTA, 
Giambra Editori,
prima edizione giugno 2018.


Come dimostrano i dati del mercato editoriale italiano degli ultimi anni, i piccoli e medi editori crescono dimostrando serietà e vivacità culturale, certamente salutari in un panorama spesso viziato dal conformismo. E proprio da questi editori coraggiosi ci arrivano autentiche perle come questo libro di Anna Marotta dedicato al famoso bandito
Testalonga. Il saggio nasce come Tesi di laurea dal titolo "Il bandito Antonino di Blasi alias Testalonga" (1728-1767), a conclusione del corso di laurea in Filologia Moderna, conseguito nel 2016 con il massimo dei voti e la lode presso l'Università degli Studi di Catania. Il valore aggiunto del libro consiste nell'aver coniugato il rigore delle fonti con lo stile narrativo. Lo storico/detective dovrà dipanare un'intricata matassa, dove non solo storia e leggenda sono intimamente intrecciati, ma dove il confine tra legge e fuorilegge risulta, come vedremo, assai labile.
Per prima cosa, l'Autrice descrive il contesto storico, politico e sociale nel quale il protagonista, anzi, i protagonisti si trovarono a vivere ed operare: il bandito Testalonga, il suo "antagonista", il viceré Fogliani, i nobili, il popolo e colui che nel libro viene chiamato "l'alter ego" del bandito, che "nel tormentato inseguimento tra guardia e ladro , si scontrò con qualcosa più grande di lui che non avrebbe mai immaginato", il principe di Trabia Don Giuseppe Lanza, nominato Vicario dal viceré con l'incarico di catturare Antonino di Blasi e la sua banda.
Nella Sicilia del Settecento si susseguono ben quattro dominazioni: quella spagnola, sabauda, austriaca e infine borbonica, ma per i siciliani cambiava poco o nulla essendo semplici pedine nelle mani dei potenti e succubi di un sistema dove imperavano i privilegi e gli abusi nobiliari e l'oppressione tributaria e dove anche la natura faceva la sua parte con catastrofi, epidemie e carestie di raccolti, come la crisi del grano del 1763. Sono proprio gli anni in cui il di Blasi si diede alla macchia. Intanto, una precisazione terminologica e storica: banditismo e brigantaggio sono due fenomeni diversi, anche se spesso vengono confusi. Tra il Cinquecento e il Settecento venivano chiamati "banditi" coloro che erano colpiti dal bando, cioè da un decreto di espulsione dalla comunità; il brigantaggio fu fenomeno successivo e più complesso, che interessò migliaia di persone che non possono essere sbrigativamente e sommariamente liquidate come "delinquenti", ma che ebbe il carattere di una vera "insorgenza", dapprima contro i francesi e il giacobinismo e che esplose soprattutto dopo il 1860 contro uno Stato che evidentemente in troppi percepivano come oppressore e invasore. Contro banditi e briganti il potere rispose con una repressione cieca e selvaggia, fatta di torture, esecuzioni sommarie, teste mozzate e corpi smembrati. Una triste pagina di storia che solo di recente è stata raccontata anche "dalla parte dei vinti". L'altra faccia di questa feroce repressione era rappresentata dal compromesso, dallo scendere a patti con i malviventi da parte di molti settori "altolocati" della società.
Antonino di Blasi nacque il 19 febbraio 1728 a Pietraperzia. Ultimo di sette figli, crebbe in un ambiente povero e privo d'istruzione. A soli 15 anni sposò Antonia Anzaldo che di anni ne aveva addirittura undici. Non sappiamo esattamente che lavoro facesse il giovane sposo, comunque per un certo tempo cercò di sbarcare il lunario. Poeti, romanzieri e cantastorie hanno tramandato il momento in cui Antonino si diede alla macchia. Lo fece dopo aver ucciso il bargello (nome con il quale si indicava il capitano militare addetto all'ordine), perché questo gli aveva assassinato la madre. Una "romantica leggenda" come la definisce Anna Marotta, che non trova riscontri oggettivi poiché si è potuto appurare dall'archivio della Chiesa Madre di Pietraperzia che la madre morì quando Antonino aveva tra i tre e i quattro anni. L'idealizzazione del bandito come una specie di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri, anche se priva di prove che ne dimostrino la veridicità, risponde pienamente all'anima di un popolo assetato di riscatto e di giustizia. "La leggenda - scrive Marotta - diventa uno specchio riflettente di quei difficili anni, anche perché i bargelli, così come i gabelloti e i campieri, rappresentavano gli emissari dei "nobili" feudatari e loro erano i fautori delle peggiori barbarie a danno del popolo" Plausibile è la notizia secondo cui Antonino di Blasi scontò tre anni di carcere ad Agrigento per aver rubato un bue. Rimesso in libertà incrociò il suo destino con quello dei compagni di (s)ventura Giovanni Guarnaccia di Pietraperzia e Antonio Romano di Barrafranca. Insieme organizzarono una temibile e numerosa banda i cui primi movimenti sono attestati, come si evince dal fondo Trabia presso l'archivio di Stato di Palermo, a partire dal 1766. Il primo luglio di quell'anno l'Avv. Fiscale Don Giuseppe Iurato scrive al viceré Fogliani mettendolo in guardia sulle malefatte della banda ed invocando i necessari provvedimenti. Viene subito promulgato un bando con cui si mette una taglia di cento onze sui tre principali capi della banda: Testalonga, Guarnaccia e Romano. Da questo momento non sono più semplici ladri, ma "abbanniati", banditi. L'attività principale della banda consisteva nell'assaltare le masserie ed estorcere ai benestanti il denaro con cui Testalonga creò una fitta rete di complicità, anche ad alti livelli, tanto da dimorare tranquillamente presso nobili ed ecclesiastici. Alla banda viene attribuito un solo omicidio, quello del Tenente dei barrigelli di Butera, ma non imputabile al Testalonga. In seguito al bando, il Guarnaccia si separò dal resto della banda seguito da tre compagni, ma nel mese di ottobre vennero catturati a Regalbuto e il 10 novembre furono impiccati a Palermo nella Piazza della Marina. Testalonga, Romano e gli altri, per nulla intimoriti, continuarono le proprie scorribande assaltando feudi e masserie. Ed ecco entrare in scena Don Giuseppe Lanza Principe di Trabia che, come abbiamo già detto, viene nominato Vicario Generale Viceregio. Una volta ricevuto l'incarico dal vicerè, egli organizzò il suo quartier generale a Mussomeli e promulgò subito un bando nel quale si fissava la taglia per ciascun bandito. Deciso a stroncare l'attività della banda, il Vicario inviò corpi armati a perlustrare campagne e grotte e non esitò ad assumere come spie e capitani elementi della malavita. Dai suoi informatori e dalle numerose lettere anonime ricevute, Don Giuseppe Lanza compilò una lista dei complici e protettori del Testalonga, ai quali intimò di consegnare il bandito vivo o morto. Siamo all'epilogo della storia. Il 18 febbraio 1767 Testalonga e il suo fedele compagno Romano, in seguito ad un conflitto a fuoco, vennero catturati in una grotta nei pressi di Castrogiovanni (l'attuale Enna), traditi proprio dai principali protettori, i baroni fratelli Trigona di Piazza. Di Blasi e Romano, insieme ad altri componenti della banda, vennero portati a Mussomeli, torturati e condannati alla forca, sentenza eseguita il 7 marzo 1767. L'indomani i corpi vennero squartati e le teste tagliate, quella del di Blasi portata come trofeo a Palermo, la testa di Romano venne esposta a Barrafranca. Un potere corrotto a tutti i livelli si accanisce in modo barbaro sui cadaveri, ma nessuno dei numerosi protettori, prima additati dal Vicario, venne punito, anzi, intascarono riconoscimenti e ricompense. E allora, la domanda che più volte emerge scorrendo le pagine del volume, risulta pienamente legittima:" CHI SONO I VERI BANDITI?".
Anna Marotta ha compiuto un lavoro straordinario, da vera storica/detective ha consultato le carte con pazienza certosina (un intero capitolo è dedicato agli Archivi) restituendoci nella sua interezza la figura del bandito Testalonga e la sua epoca. Un libro che non può mancare nella biblioteca di ogni studioso o semplice appassionato della nostra storia.

Salvatore Marotta



02 settembre 2018

Invito alla lettura: Il fossile vivente e la donna dai capelli color mogano

Fabiola Gravina

Gregorio Servetti è un quarantenne reduce da storie sentimentali fallite, un personaggio con rigorosi principi etici, con valori di altri tempi, "un fossile" come lui stesso si definisce, per il suo mancato adeguamento ai tempi moderni, come fosse una reliquia di generazione passata. Pur consapevole di quanto le regole di correttezza morale siano un fastidioso bagaglio, non intende rinunciarvi e la sua reazione di fronte alla volgarità è assimilabile all’infelicità, certo che gli uomini possano  aspirare a qualcosa di più nobile. Soffre per la mancanza di una famiglia propria e la necessità di sentirsi amato lo stimola alla ricerca ostinata di una persona affine che possa colmare il vuoto  avvertito nell' intimo. In questa ricerca trova l'aiuto e la complicità della barista Gina, l'accidentale destinataria delle sue confidenze.
 Tutte le mattine, nel tempo di un cappuccino, Gina ascolta perplessa le dissertazioni esistenziali dell'amico in piena crisi di mezza età, bisognoso di dare un senso all'esistenza e proprio nel bar avviene il  fatale incontro con la donna  dai capelli color mogano,  che si siede ogni Martedì al tavolo d’angolo, con lo sguardo gonfio di malinconia.
L'intesa è immediata, perché l’inquietudine del viso di lei altro non è che una sorta di specchio dell’anima di Gregorio. La donna però scompare senza che ci sia stato il tempo di scambiare una parola e a nulla valgono le strategie inventate dall’amica barista per rintracciarla e restituire il sorriso al fedele amico sull'orlo del tracollo. La vicenda cambia registro quando la donna dai capelli color mogano e dagli occhi nocciola si presenta nuovamente nel bar, ma a sentir Gina è soltanto una copia venuta male. Sono dunque due, le donne dai capelli color mogano?  Il mistero si infittisce con il ritorno di  Manlio, amico del cuore di Gregorio.

La sua decisione di rientrare in Italia e lasciare di punto in bianco una carriera e un lavoro ben remunerato, ha forse a che fare con le due donne? Altri  personaggi arricchiscono la vicenda: la dolce Viola in cerca di un potenziale padre per i suoi figli; l'ambigua Giada che calpesta i cuori degli uomini che s’impigliano nella sua infida rete; l'opportunista Marco, emblema della disonestà e dei facili guadagni; la scaltra Katia, che impartisce lezioni su come gestire al meglio una relazione amorosa; l'eterea Estella, vecchio amore impossibile da dimenticare; lo sventurato Aquiletti, studente lacunoso alla ricerca dell'agognata promozione. Una serie di singolari eventi  porteranno il subbuglio nella monotona vita del protagonista e lo costringeranno a mettere in gioco ogni carta per portare a termine il suo piano sentimentale.  Gregorio Servetti sperimenterà sulla propria pelle la bellezza dell’innamoramento negli anni della maturità, il valore dell’onestà e della rettitudine, il dono prezioso dell’amicizia e il sapore amaro dell’inganno. Leggetelo, non vi deluderà.

Fabiola Gravina



27 agosto 2018

Invito alla lettura: Di notte... le stelle


Ho iniziato a leggere la prefazione e mi sono immedesimata nell'autrice, una insegnante, che prova interesse per lo studente che confida problemi, situazioni, sogni, aspettative sul suo non facile avvenire. È accaduto alla scrittrice, insegnante in una scuola molto speciale, la Casa Circondariale "Luigi Bodenza" di Enna.
Nel carcere di Enna fu rinchiuso Faisal, un ragazzo di colore proveniente dal Ghana, educato in una famiglia che, nonostante tutto, conduceva una vita serena e dignitosa. Una famiglia numerosa con un padre severo che diventa spesso manesco alle sue tante bugie. Faisal cresce con una disciplina quasi militare.
L’andamento famigliare peggiora con le crisi economiche del Ghana e la difficoltà del padre a trovare un lavoro.
Faisal a diciannove anni, con la tristezza nel cuore di ogni migrante lascia la madre, la casa, abbandona il suo paese e si trasferisce in Libia.
In Libia, prima della rivoluzione e la caduta di Gheddafi, si inserisce subito, trova un lavoro e con quello che guadagna riesce ad aiutare la sua famiglia.
Dopo qualche anno la situazione politica cambia. Campagne di accuse a paesi stranieri causano un clima di diffidenza e di odio verso la gente di colore. La rivoluzione, le violenze e la caduta di Gheddafi fanno decidere Faisal ad abbandonare la Libia.
Un'impresa che si presenta subito difficile e piena di ostacoli; il paese è chiuso, anche riattraversare il deserto verso sud, attraverso il Niger, non è possibile. Unica via di fuga è il Mediterraneo.
A Faisal la traversata verso il “sogno dell’Italia” sembra facile, ha denaro a sufficienza e la volontà di mettersi in salvo.
La testimonianza di Faisal sul viaggio di questi tanti disperati, uomini, donne, bambini piccolissimi, è un incubo angoscioso che nessuno dovrebbe essere costretto a vivere.
L’Avaria dell’imbarcazione, porterà a momenti di follia e di ferocia e alla morte di molti di loro. Dopo molti giorni di deriva le motovedette italiane salveranno i superstiti: Faisal è uno di loro.
Alla gioia di essersi salvato segue quasi subito il tormento e la sofferenza del carcere. Viene accusato di omicidio e di delitti che non ha commesso, da innocente è condannato a 14 anni.
Per descrivere l’afflizione del carcere l’Autrice scriverà: “vedo chiudere alle mie spalle ben sette, dico sette, tra porte di ferro blindate e pesanti cancelli”. Ho immaginato di vedere quegli uomini dietro le sbarre, nelle loro celle, trascinarsi in una vita che perde di senso con la perdita della libertà personale.
Durante la carcerazione Faisal fa tesoro dei diversi insegnamenti, impara a cucinare, a leggere e parlare l'italiano e questo gli permette di lavorare ed entrare in contatto con insegnanti ed educatori, capaci di ascoltarlo e consigliarlo. Faisal è un giovane non rassegnato, fiducioso nella Legge.
Dopo 4 anni di carcere Faisal avrà giustizia..."è stato assolto per non aver commesso il fatto".
Nella postfazione di questo agile volumetto, che si legge in poco tempo; il suo avvocato difensore descrive, in un breve resoconto, come superati i pregiudizi iniziali si convince dell’innocenza del ragazzo. Per la verità un resoconto troppo breve; avrebbe potuto spendere qualche riga in più per spiegare la situazione kafkiana nella quale viene scaraventato Faisal.
Non si comprende chi sono gli accusatori che lo portano in carcere e il perché di accuse tanto gravi fatte a un innocente. Incomprensibile anche la motivazione dell’assoluzione che ci da l’avvocato. Faisal sarebbe stato assolto perché da buon musulmano, come tale, non avrebbe potuto commettere omicidi per superstizione o per riti magici, e perciò credibile, a differenza di altri accusati, suoi compagni di traversata, poi condannati definitivamente , ma di religione cristiana.
Dopo l’assoluzione, Faisal è un uomo libero, ha trovato un lavoro come mediatore culturale e vive a Enna. Ha conosciuto e si è innamorato di una ragazza, una operatrice del centro di accoglienza, e con lei è nato un amore.
Consiglio la lettura “Di notte... le stelle”. Un libro breve ma intenso. Pagine che ci mettono davanti agli occhi un resoconto terribile e terrificante di una umanità in fuga da guerre, persecuzioni e fame. Una storia reale di uomini, donne, bambini che muoiono in situazioni angosciose.
Pagine che dovrebbero fare riflettere, soprattutto coloro che girano indifferenti la testa da un’altra parte, e quei cuori che hanno perso ogni briciola di umanità.

Lina Viola


Il libro di Filippa La Porta è disponibile in biblioteca. Prenota qui.