Visualizzazione post con etichetta Giovanni Culmone. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Giovanni Culmone. Mostra tutti i post

16 gennaio 2018

CARCÀRI E CIARÀMITARU DI PIETRAPERZIA di Giovanni Culmone - 2^ Parte

ISSÀRU E CANALÀRU

Cari amici nella 1a parte Giovanni Culmone ha iniziato ha parlarci della produzione del gesso.
Un lavoro duro e con molti pericoli che dava da vivere a molte famiglie.
La materia prima veniva ricavata da marne gessose e da cave di alabastro gessoso. Ha descritto come avveniva la cottura delle rocce nella fornace (la carcàra) per ricavarne gesso per l'edilizia, mentre le rocce più compatte venivano cedute ad abili scalpellini per farne piastrelle per pavimenti o portali. Ancora oggi possiamo vedere molte case, perlopiù ormai abbandonate, costruite in gesso e molte antiche scale con la “pedata” dei gradini in alabastro.

FRANTUMAZIONE DEI MASSI DOPO LA COTTURA

A raffreddamento avvenuto con tutti i massi ormai friabilissimi, ricoperti di fuliggine ma bianchi dentro, si procedeva alla frantumazione.
I massi si spostavano a mano, dall'interno all'angusto spazio davanti la bocca della fornace, e con una grossa mazza si riducevano in polvere si mazzijàvanu.
Fortunatamente, nell’immediato dopoguerra 1943/45, tale durissimo lavoro, con grande sollievo degli addetti, venne sostituito da frantumatori meccanici.
Quando all’interno della fornace non rimaneva niente da recuperare si procedeva a prepararla per un’altra infornata: si riempiva con la stessa maestria di prima, si liberava il pavimento dalla cenere residua e si ricominciava ad ardere.
Tutti i riempimenti avvenivano sempre prima di liberare il pavimento dalla cenere residua che agevolava il lavoro di sistemazione dei massi da cuocere ad un livello più alto.
Il "gesso comune" o “anidro” ottenuto era una polvere grigiastra per l’aggiunta di fuliggine e di cenere al bianco del Solfato di Calcio. Fuliggine e cenere di combustione che si aggiungevano automaticamente sempre in quantità variabile: non c’era un metodo per stabilirne la quantità da aggiungere alle pietre già cotte, per cui il colore bianco-grigiastro, non sempre era della stessa tonalità.
Per ottenere il gesso bianco bastava ripulire i massi e frantumarli in ambienti puliti e senza cenere.
Il gesso disidratato veniva correntemente utilizzato nell'edilizia per realizzare strutture portanti e una volta mescolato all'acqua, diventava rapidamente compatto e induriva (si verificava in pratica una finissima ricristallizzazione). Durante questo processo, il gesso rapprendendosi si riscaldava, perché la reazione chimica che avveniva restituiva lentamente il calore che era stato necessario per privarlo delle molecole d'acqua.

INSACCAMENTO E TRASPORTO DEL GESSO

Dopo la frantumazione il gesso cotto, ridotto in polvere e grossolanamente setacciato, si confezionava in contenitori adatti per il trasporto: sacchi generalmente di tela olona chiusi a busta e bisaccini per gli asini; du tù̢mmina, due stai, in ogni sacco e quattro, due per lato nei bisaccini. Per questa operazione si adoperava la misura di du munned̩d̩a, due mondelli, equivalente a mezzo staio. Uno staio equivale al volume di 16 decimetri cubi e al peso di circa 16 chilogrammi.

Recipiente da du munned̩d̩a con cui i gessai misuravano il gesso cotto

Il trasporto del gesso a dorso d’asino era attivo fino a tutto il 1960. Gli asini per il trasporto del gesso non erano bardati e portavano una bisaccina a dorso nudo e spesso un sacco sopra, al centro tra le due saccocce. In tutto ogni animale trasportava quattro o sei tumoli di gesso cotto. Generalmente in ogni viaggio veniva impiegata na rìtina di scècchi circa dodici asini senza vurdunàru senza conduttore. Gli asini, animali docilissimi, percorrevano il tragitto Marano-Tre Ponti, senza mai disperdere il carico, in fila indiana e con la lunga corda della cavezza attorcigliata al collo; ad aspettarli un interessato gessaio che li accompagnava a destinazione. A volte, se le condizioni erano agevoli, gli asini salivano le scale esterne delle abitazioni dei clienti e portavano il gesso nel vano predisposto in attesa della lavorazione.

Inizi del 1900: asini con carico a dorso nudo, al centro tra le due saccocce

Su ogni animale è visibile il carico: una bisaccina a dorso nudo ed un sacco sopra, al centro tra le due saccocce. Ogni asino disponeva solo di cavezza capì̢stru seguita da lunga redine cud̩d̩àna e non portava lu capizzù̢ni; non aveva sottopancia cì̢ṅġa, cudèra e pistulèna, non era bardato e quindi non portava basto vardù̢ni con arcione manijù̢ni; nel basto c’erano cchjacchi cappi e ai lati capi di vardù̢ni corde del basto per assicurare il carico.
All'arrivo della lunga fila di asini ai Tre Ponti, gli addetti gessai, che erano lì ad aspettare, si avvicinavano, interrompevano la rìtina, slegavano la cud̩d̩àna di un asino e lo menavano seguito dagli altri che avevano selezionato; si avviavano così in paese a soddisfare la richiesta di alcuni clienti.
I gessai che disponevano di scècchi e carrètta in un solo viaggio trasportavano cinque/sei salme gesso perché, come già detto, un asino ne trasportava quattro/sei tumoli e un carretto due salme.

Particolari della bardatura di un animale da soma

Sulla testa cavezza e morso, più giù sottopancia che assicura il basto al dorso dell’animale, poi le corde che legano le ceste al basto, quindi
pistulèna per impedire al sottocoda, cudèra, di scivolare in giù.
Gli asini riuscivano a portare l’intero carico a destinazione senza l’utilizzo dei descritti accorgimenti.

Fornace e fabbricato abitativo. A centro in alto visibile la riparazione eseguita con conci arenari

Foto scattata in occasione della proiezione della simulazione del processo di produzione del gesso (Agosto 2015)





Giovanni Culmone
continua... 
 
1^ Parte - Per leggere clicca qui
3^ Parte - Per leggere clicca qui
4^ Parte - Per leggere clicca qui




07 gennaio 2018

CARCÀRI E CIARÀMITARU DI PIETRAPERZIA di Giovanni Culmone - 1^ Parte



ISSÀRU E CANALÀRU


Produzione di gesso e fabbrica di terracotta per tanti anni affiancarono la più vivace attività agricola e contribuirono ad arricchire il territorio. Erano industrie a conduzione familiare che, per qualche secolo con successo, apportarono ricchezza al tessuto sociale e fecero conoscere i loro prodotti ai paesi vicini.
issàru e canalàru erano nomi che indicavano mestieri: produttore e/o rivenditore di gesso il primo, costruttore e/o rivenditore di tegole il secondo. Col passare del tempo, nell’uso dialettale locale, i mestieri degli avi sono diventati nomignoli per identificare meglio
le persone.
Issàra, plurale di issàru fu affibbiato ad alcuni filoni di Di Perri, Ciulla, Bonaffini, Apàssolo, Pepe e Spampinato, canalàra, plurale di canalàru ai  Napoli e ad alcuni filoni Tortorici.
Issàra e canalàra, sono stati da sempre concorrenti nell'approvvigionarsi della paglia e maestri nella costruzione di bbù̢rgia. Entrambi, gestori di fornaci, facevano ricorso allo stesso combustibile povero, che cercavano di accaparrarsi con ogni mezzo nel periodo della trebbiatura. La paglia che riuscivano ad ottenere la trasportavano in prossimità della loro azienda e la stoccavano in voluminosi bbù̢rgia.

Bbù̢rgia di lu ciaramitàru
Li issàra utilizzavano il solfato di calcio biidrato CaSO4·2(H2O), roccia presente in contrada Marano, li canalàra usavano l’argilla presente a lu ciaramitàru in contrada Piano Noce.

PERFORAZIONE DELLA ROCCIA

La roccia veniva aggredita con cariche esplosive pruvulàti e al seguito si frantumava in massi più o meno grossi che venivano giù dalla parete principale. Era una procedura che richiedeva scrupolo, cura e perizia e doveva essere preparata con maestria e responsabilità. Da sopra, arretrati di un metro circa dallo strapiombo, si praticavano, a mano, serie di fori di quattro centimetri circa di diametro, opportunamente distanziati, e molto profondi che a volte raggiungevano i sei metri. Per scavarli si procedeva con un pesante palo di ferro a taglio, che a ritmo costante si alzava, si girava un po’ e si lasciava cadere. Di tanto in tanto, nel nascente foro, vi si versava dell’acqua, quanto bastava ad impastare la polvere prodotta che si estraeva con una canna spaccata in punta. Il palo a taglio, all'occorrenza allungabile da dietro, vi se ne poteva avvitare un altro.
Ultimato lo scavo dei fori, il gessaio addetto, con competenza e professionalità, pari a quella del più esperto artificiere, passava ad introdurvi le giuste cariche esplosive e a stendere le lunghe micce.
A monte e a valle della strada provinciale per Riesi, su cui si affacciavano le cave, operai dell’azienda bloccavano temporaneamente il traffico fino all'esplosione dell’ultima mina, onde evitare danni alle persone provocati dalla ricaduta di qualche frammento solido. Caratteristico era il rimbombo avvertito nelle contrade limitrofe che tutti riconoscevano come pruvulàti di issàra o pruvulàti a li Carcàri e non confondevano con i tuoni delle turbolenze atmosferiche.
Dopo le esplosioni si selezionavano i massi più o meno maneggevoli o si riducevano a tali con l’aiuto di grosse mazze e poi a mano, a spalla o con ogni mezzo di trasporto si avvicinavano alla fornace per la successiva manipolazione. 

ALABASTRO GESSOSO

Maràno: cava di alabastro e gesso. La stratificazione consentiva lo stacco più o meno spesso di lastre adattabili ad ogni tipo di lavorazione. I massi non più utilizzabili e lo sfrido andavano cotti in fornace
In alcune cave era presente l’alabastro gessoso, minerale molto simile alla roccia di gesso e con la stessa formula chimica CaSO4·2(H2O) perfettamente sfaldabile e riducibile in lamine più o meno sottili. Dopo lo stacco dalla roccia madre si selezionavano i massi più compatti per consegnarli a scalpellini e farne piastrelle per pavimentazione, rivestimenti di scale, portali, stipiti di porte d’ingresso di civili abitazione od altro.
I massi più piccoli, ritenuti non idonei all'utilizzo artigianale, assieme ai resti della lavorazione, finivano nella fornace per diventare anidro o gesso comune.
Il pavimento della Chiesa Madre, realizzato tra il 1830/1840 con piastrelle quadrate di cm. 40x40 che non superavano gli 8 cm. di spessore, fu sostituito col marmo di Carrara alla fine del 1900.
Nella chiesa dell’Annunziata, oggi del Santo Rosario, a tutt'oggi resiste il vecchio pavimento di alabastro locale anche se qualche piastrella, durante l’ultima restaurazione, è stata sostituita con quello più duro e di colore diverso di Volterra.
La qualità dell’alabastro locale non eccelle, ha poca durezza compresa tra 2,5 e un massimo di 3 della scala di Mohs ed è ritenuto molto tenero per resistere all'usura nel tempo. 

Pietraperzia via Nazario Sauro n° 27, gradini di alabastro locale che a tutt’oggi – Ottobre 2017 – rivestono la scala d’ingresso di una casa di civile abitazione

Pietraperzia Via Ville, n° 3 e n° 5 – Ottobre 2017 – Portali in alabastro locale proveniente dalla cava di Marano

COTTURA DEL GESSO

Le fornaci avevano dimensioni diverse ma tutte conservavano la forma cilindrica. Costruite in pietra rotta erano a cielo aperto. Il raggio di base di alcune superava i tre metri e l’altezza spesso superava i cinque metri. Insistevano su terreno scosceso per disporre di due accessi opposti a diverso livello. L’accesso posteriore serviva solamente a riempire la parte alta della fornace. Nel pavimento a fondo naturale, una depressione, delimitata da un gradino alto e largo venti centimetri circa, costituiva il contorno di base che al momento della cottura fungeva da contenitore di cenere.
Nella parte interrata, le pareti della fornace anch’esse in pietra rotta reggevano la terra circostante.
Il riempimento cominciava col disporre i primi massi sul gradino di base e appoggiati alla superficie laterale, disposti a cerchi sovrapposti sempre più piccoli fino a chiudersi in alto a cupola. Si completava col disporre sopra la cupola i frammenti di roccia che, per le piccole dimensioni, non erano state utilizzate per riempire l’interno.
Ruderi di fornace in riempimento vista dall’alto con edificio abitativo attaccato

L’accesso secondario, dopo il riempimento, veniva chiuso in muratura. Quello in basso, il principale, a forma quasi di triangolo isoscele, come l’altro, con base di 60/70 centimetri ed altezza poco superiore al metro e mezzo, dopo le ultime operazioni di pulitura della base e lo sgombero dei materiali superflui diventava bocca della fornace per tutto il tempo della cottura che durava dalle sei alle otto ore.

Accesso principale della fornace trasformato in bocca di fuoco

Si iniziava ad ardere prima dello spuntare del sole e si proseguiva, senza interruzione, per sei otto ore a seconda della stagione. Il lavoro era molto duro e veniva fatto da più persone: alcune, portavano la paglia allo imbocco della fornace, mentre due, con furcèḍḍi di legno, immettevano alternativamente spruzzi di paglia che producevano grosse fiammate.
Il trasporto della paglia verso la fornace avveniva con grossi sacchi, riempiti fino all'orlo, fortemente pressati, chiusi da corda passante a zig zag negli occhielli esistenti ai bordi.
Si smetteva solo quel tanto necessario per utilizzare la cciàppa, lungo spiedo con un arco di cerchio in punta, fino a liberare la bocca della calamì̢ta, situata al centro del pavimento, e liberare la fornace dal grosso cumulo di cenere: bastava introdurla nel cumolo, spingere verso l'alto che grosse fiammate divoravano tutta la cenere.
Al raggiungimento di 128°C i tre quarti d'acqua contenuta nei cristalli del solfato di calcio biidrato CaSO4·2(H2O) evaporava e la colorazione assunta dei massi lambiti dalla fiamma, suggeriva all'esperto gessaio l’avvenuta cottura. Si interrompeva la combustione, si ricopriva la cenere rovente, alla base della fornace, con la breccia rimasta dalla frantumazione dei massi per ottenere altra quantità di gesso cotto.
A questo punto il Solfato di Calcio Biidrato era diventato anidro o gesso comune con la relativa formula chimica CaSO4·½H2O che evidenzia la perdita del 75% dell’acqua iniziale.
Dopo alcune ore si procedeva a fare implodere il manufatto a cupola che faticosamente s’era costruito e si copriva l’intera fornace con tetto di fortuna per proteggere il prodotto, da improvvisi acquazzoni, che lo avrebbero irreparabilmente compromesso.
Una fornace, riempita come descritto, produceva dalle duecentocinquanta alle duecentosettanta sàrmi salme di gesso. La sàrma utilizzata dei gessai era di sedici tù̢mmina, sedici stai e fatti i calcoli pesava circa 256 chilogrammi.
Senza l’aggiunta del brecciolino finale, tecnica adottata da alcuni gessai che preferivano lasciare sempre il tetto di copertura per non rifarlo di volta in volta, la produzione si abbassava di venti salme circa.

Giovanni Culmone
Continua...

2^ Parte - Per leggere clicca qui
3^ Parte - Per leggere clicca qui
4^ Parte - Per leggere clicca qui




30 dicembre 2017

Giovanni Culmone racconta: Il Barone Michele Tortorici

Il casato dei Baroni Tortorici affonda le radici nella seconda metà del 1500 e che l’assunzione del titolo “Barone di Rincione”, appartenuto ai Giarrizzo fino al 1897 avvenne per non inflazionare il titolo. 
Lino Guarnaccia nel suo volumetto LA CHIESA MATRICE DI PIETRAPERZIA ha il grande merito diavere aggiunto un altro tassello alla nostra conoscenza, e per questo lo ringraziamo. Lui afferma testualmente che la baronia di Rincione, nel 1897 con atto pubblico, passò ai Tortorici. Ed è vero. Però, allora, non ribadì, a chiare lettere, che i Tortorici erano già Baroni di Vignagrande e solo, dopo la stipula di quell’atto pubblico, cominciarono a fregiarsi anche dell’altro titolo dichiarandosi Baroni di Vignagrande e di Rincione o viceversa. I titolati di vecchio stampo allacciavano rapporti di parentela tra di loro, come si evidenzia scartabellando tra le genealogie delle famiglie dei Baroni Giarrizzo e Tortorici di Pietraperzia, Trigona di P. Armerina, Furitano di Misilmeri e Grimaldi di Enna. Al lettore, per rendersene conto, basta scorrere un qualsiasi loro albero genealogico o, visionare, un antico atto funerario o certificato di matrimonio, facilmente reperibile nell’archivio della Parrocchia Santa Maria Maggiore di Pietraperzia, come quello che qui si riporta, e constatare quanti rapporti di parentela s’incrociano. Per quello che ora interessa per dimostrare inequivocabilmente che il blasonato Tortorici già esisteva nel 1828, molto prima del 1897, basta leggere l’atto di matrimonio di seguito allegato. 

Atto di matrimonio di don Michele figlio del Barone Antonino Furitano

 


Traslitterazione

Si pretende contrarre matrimonio tra Don Michele figlio del Barone Don Antonino Furitano e della Baronessa Donna Antonina Sciarrino di Misilmeri, con Donna Candida figlia del Barone Don Michele Tortorici e della fu Baronessa Donna Lucia Giarrizzo di questa città.
Pietraperzia 14 Settembre 1828

In questo atto di matrimonio si constatano i rapporti di parentela fra tre casati: Michele Furitano (sarà Sindaco di Pietraperzia nel 1860) sposa Candida Tortorici e la mamma di Candida Tortorici era la Baronessa Donna Lucia Giarrizzo.

La famiglia Giarrizzo arriva al 1897senza eredi. L’unica era Antonietta Giarrizzo, andata in sposa al Barone Grimaldi di Enna. Antonietta Giarrizzo, letterata e poetessa, nata il 22 Ottobre del 1811, non si sa se alla data della cessione del titolo fosse ancora in vita.

Il Barone Michele di Michele nacque nel 1878 e s’incontra la prima volta al capezzale del padre, Barone Michele Tortorici di Giuseppe, il 20 Marzo del 1904 quando resta orfano. Il defunto Barone era Consigliere Comunale ed il Sindaco, Stefano Di Blasi allora in carica, e tutto il Consiglio lo vollero al posto del padre e così, il Barone Michele di Michele diventa Consigliere Comunale. Il 23 Dicembre dello stesso anno 1904, appena venticinquenne, venne eletto Sindaco e il primo Febbraio del 1905 sposò Rosa Nicoletti, figlia del Cav. Uff. Giuseppe Nicoletti, già Sindaco. Rimase in carica fino al 22 Dicembre del 1909.
Dopo di lui e fino all’elezione a Sindaco dell’Avv. Giuseppe Milazzo del 25 Maggio 1921 s’alternarono dieci Sindaci tra i quali si ricordano:

Mendola Cav. Rosario Sindaco dal 27/04/1912 al 18/07/1914, nonno della Farmacista Dottoressa Cristina Mendola;

Perdicaro Dott. Vincenzo Sindaco dal 18/07/1914 al 26/08/1917, nonno della Professoressa Concettina Perdicaro;

Ragusa Sig. Rosario Sindaco dal 26/08/1917 al 09/11/1919, poi Presidente del sodalizio “Regina Margherita”.
Furono gli anni più duri della sopravvivenza dei nostri antenati. La partecipazione alla guerra del 15/18, come tutti ancora oggi la ricordano, lasciò strascichi dolorosi. In quel periodo nessuna opera pubblica di rilievo fu realizzata. Per la popolazione con un tenore di vita molto basso non c’erano ammortizzatori sociali né assistenza sanitaria. I giovani che s’immolarono al fronte per la patria lasciarono spesso vedove ed orfani senza alcun sostegno. Il governo centrale era allo sbaraglio, non riusciva a dare risposte credibili. A complicare la sopravvivenza ci fu la nascita del brigantaggio e la diffusione dell’abigeato: si rubavano anche le galline.

L’avvento del fascismo, percepito ufficialmente dopo il 2 Aprile del 1927, data di nomina del primo Podestà, fu salutato dalla gente comune come un toccasana. Si avvertì la frenata del brigantaggio e la scomparsa dei furti di bestiame. “Si poteva dormire con la porta aperta”, ripeteva la gente. Andare al mulino per la macina di una bisaccia di grano, diventò più sicuro, non si correva il rischio, come prima, di essere privati del grano e della cavalcatura.

Eletto Sindaco l’Avv. Giuseppe Milazzo nel Settembre 1921 si approva il progetto della sistemazione della Sorgente S. Giovanni e relativa conduttura fino al fonte canale.

Allora l’acqua della sorgente scorreva a cielo aperto e arrivava al fonte canale, abbeveratoio comunale, come tutte le sorgente di campagna: per facilitare il riempimento delle brocche spesso vi si sistemava allo sbocco una foglia di agave. Pensare ad una grossa vasca ottagonale per abbeverare gli animali da soma, a diverse cannelle per riempire le brocche, ad una vasca più bassa per dissetare gli ovini e ad altre due vasche a terra, concepite per lavare il bucato, com’era nel progetto, sembrava una chimera. La realizzazione di quest’opera pubblica segnò un salto di qualità della vita.

Ancora in carica lo stesso Sindaco Avv. Giuseppe Milazzo, si precisarono i provvedimenti per l’illuminazione elettrica.

Dalla delibera del 9 Agosto del 1925 si legge… »... Indi il Presidente propone perché in esecuzione a quanto venne stabilito nel verbale di verifica e consegna del 20 ottobre 1924 in riguardo alla maggiore illuminazione notturna, il Consiglio nella odierna seduta, che è la prima dopo la sua costituzione in cui si occupa della questione, deliberi, se intende averla in modo quasi totale, così come risulta dal detto verbale, cioè con l’accensione di lampade da 25 nei corsi Vittorio Emanuele, Garibaldi e Umberto I e completa in tutte le altre strade, oppure intende averla per come stabilito nel contratto del maggio 1923 e con la forma di cui nel verbale del 20 ottobre 1924 per quanto riguarda i Corsi Vittorio Emanuele e Umberto I».
Dopo analoga discussione nel riguardo, il Consiglio con voti unanimi Delibera di invitare la ditta Martorana e Compagni a fornire l’illuminazione elettrica notturna secondo le condizioni stabilite nel contratto del 13 maggio 1923 e di corrispondere fino all’approvazione della presente deliberazione il compenso di L. 3.000 all’anno per la maggiore illuminazione notturna fornita a questo Comune giusta quanto fu stabilito nel suddetto verbale di verifica e consegna. Indi il Presidente invita il Consiglio a deliberare nel seguente…”

Da una intervista fatta al testimone oculare, Rocco Zappulla del 1905, morto poi a 98 anni, si apprese:

Tra il 1919 e il 1920 arriva a Pietraperzia un certo Petrosino. Affitta un locale a piano terra, di modeste dimensioni, ubicato allora di fronte la tettoia del mulino della Signora Martorana. Per i pietrini, di fronte “l’appinnata di la màchina di Callararu”. Dov’era il locale preso in affitto, oggi insiste la casa di Filippo La Monica.
“La màchina di Callararu”, locale interrato e a piano terra occupava tutta l’area dove oggi sorge il palazzo che ingloba la farmacia Cannata-Quartararo.

Il Petrosino collocò, in quel locale, un motore a scoppio, residuato bellico, e una dinamo da accoppiare al motore con lo scopo di generare corrente elettrica. Sfruttando amicizie locali, ottenne dal Comune un contratto per la fornitura di corrente elettrica, sufficiente ad illuminare, con cento lampade da 25 Watt, il Corso Vittorio Emanuele, la via Umberto e la via Garibaldi. Alla scadenza del termine fissato per contratto, il Petrosino, non potendo onorare il contratto, fu obbligato a cederlo alla Martorana. Si dice che, il meccanico del mulino, abbia sabotato il motore del Petrosino, inserendo una bulletta (na taccia) all’interno del cilindro, mentre era aperto per manutenzione!

Per la Signora Martorana, fu un regalo inaspettato. Il suo impianto, da qualche tempo produceva corrente elettrica, per opera del valente meccanico, Giovanni Pastorello, conosciuto nel campo dei geni, che era riuscito ad ammodernare il tutto, da meccanico ad elettrico: col motore a gas povero, anziché dare movimento alle macine, attraverso una serie di giunti cardanici, riuscì a produrre corrente elettrica necessaria a muovere l’impianto. Per onorare il contratto col Comune non si frapposero problemi di rilievo: di giorno azionava il mulino per la macina del grano di notte forniva corrente elettrica per illuminare le strade.

La Principessa di Deliella sottolineò l’evento col regalare alla Chiesa Madre l’impianto d’illuminazione interna che fece realizzare da maestranze fatte arrivare da Palermo.

A proposito dell’inaugurazione dell’illuminazione elettrica nella Chiesa Madre la notte di Natale del 1925, Michele Ciulla scrive: «a un certu pųntu di la Mįssa lu parrįnu Cųccu si mįsi a-ccantari ccu la vųci forti e –qquannu dįssi Gloria in eccelsissi la chjisa sbampà. Mamma mia cchi-llųstru! Si putiva scarįri na ǥuglia nterra. Ncapu l’artaru unni cc’era lu Bamminiḍḍu cc’era u-llųstru ca pariva lu sųli».

Sembra essere cominciata per Pietraperzia l’era dell’evoluzione e della trasformazione del vecchio in meglio: nel Febbraio 1926 si avvia la pratica per la pavimentazione del Corso Vittorio Emanuele.

Il 2 Aprile del 1927 il Barone Michele Tortorici fu nominato Podestà. La gente comune non percepisce niente dell’avvento fascista, avverte solo il cambiamento formale: il Sindaco di ieri si chiama oggi Podestà. Lo accetta ben volentieri per la generosità da sempre dimostrata, per i suoi precedenti di amministratore e ora si aspetta grandi miglioramenti.

Con Deliberazione n. 7 del 20 Aprile del 1927 «si accetta la proposta dell’Ing. Vincenzo Nicoletti, notificata al Comune con lettera del 25-05-1926, che individuava, come unica sorgente (sei litri al secondo) capace di alimentare il paese, quella dell’ex feudo Sciortabinello territorio di Castrogiovanni e di approntare il progetto esecutivo per la realizzazione della rete idrica e fognaria in tutte le strade del Comune».

Il 05/05/1927 s’istituisce la Banda Comunale

Tra i mesi di gennaio e dicembre del 1928 vengono deliberate numerose opere.
La pavimentazione del Corso (oggi Piazza) Vittorio Emanuele con mutuo a lungo termine concesso dalla Cassa Rurale Maria SS. del Rosario.
L’acquisto di n. 7 “candelabri” da sistemare nel Corso Vittorio Emanuele.
La nascita della Villa Comunale, Parco della Rimembranza e Campo Sportivo, terreno acquistato ai Sig. Crisafi Vincenzo e Di Lavore Liborio in contrada Canale Tonnovecchio. Nella deliberazione si legge che il pagamento del terreno doveva avvenire con le somme recuperate dalla vendita delle case di proprietà del comune site tra le vie Castello, Bottino e la nuova via dietro le scuole femminile (plesso Carmine).
In successive delibere si legge che per la realizzazione della recinzione, del cancello, della sistemazione interna e della messa a dimora delle piante fu promossa una sottoscrizione volontaria e molti cittadini prestarono gratuitamente la loro opera.
In contemporanea alla Villa Comunale e al Campo sportivo doveva essere realizzato il Boschetto Littorio su terreno comunale sito all’incrocio della via per Riesi e la strada vicinale per Vallone dell’Oro e Cerumbelle.

Tra i mesi di novembre e dicembre sempre de 1928 si approva il progetto per l’alimentazione idrica dell’abitato (condotta esterna, costruzione serbatoi, distribuzione interna). Si approva anche il progetto delle fognature nell’abitato.
A maggio del 1929 si approva l’installazione dell’Impianto telefonico nell’Ufficio Municipale.
A dicembre del 1930 si decide l’apertura della strada attaccata al teatro comunale (oggi via Monfalcone) e la concessione dell’appalto fu affidata a Adamo Calogero fu Luciano per £. 20.684.

Si fa notare che la delibera per l’apertura della strada attaccata al teatro comunale fu firmata dal Commissario Prefettizio Salvatore Ardizzone. Si temevano interessi privati da parte di qualche consigliere Comunale abitante in quel quartiere.

A gennaio del 1931 si decise la ricostruzione del prospetto del teatro comunale: Direttore dei lavori: Geom. Vincenzo Tortorici.
Le pietre della facciata del teatro comunale furono lavorate dallo scalpellino Cavagrotte di Barrafranca; i mascheroni delle chiavi delle volte dei tre portoni d’ingresso, furono ideati dello scultore pietrino Di Romano, copiate e scolpite su pietra da Matteo Di Natale (testimonianza resa il 04-09-2002 dal perito elettrotecnico Michele Ciulla).

Nel disegno di Michele Ciulla, l’angolo della Piazzetta di S. Maria, spicca il prospetto del vecchio teatro e, all’estrema sinistra di chi guarda, s’intravede un squarcio delle case attaccate al teatro. Le case furono abbattute, ed oggi vi scorre la via Monfalcone. Leggendo la Deliberazione n. 2 del 07/10/1931 con cui si approvano i lavori di sistemazione del teatro comunale, si apprende che, “dopo decenni di forzata chiusura” i pietrini potranno vedere con gioia il teatro riportato al vecchio splendore.
Facendo pochi calcoli si capisce che: il teatro non era agibile dal 1910 circa; i lavori di restauro cominciarono abbondantemente dopo la delibera della concessione dell’appalto e furono ultimati e consegnati, alla fine del 1938. Poi ci furono gli eventi bellici del 1939 e la guerra mondiale. E dulcis in fundo, come si suol dire, la bomba sganciata dagli Americani il 14 Luglio 1943 che danneggiò lo spigolo del teatro, tra via Monfalcone e Piazza V. Emanuele. Da allora il teatro restò chiuso e, dopo il 1946, la decisione irrevocabile degli amministratori di abbattere i palchetti interni e realizzare una sala cinematografica con possibilità di essere adibita all’occorrenza a teatro.
Nella seconda metà del 1900 s’è parlato sempre di restauro e si sono approntati e finanziati progetti con quali risultati? Ma qual era il teatro gioiello di cui la gente sempre ne parla? Quello che si vede nel disegno di Ciulla o quello che si ammira nella fotografia del 1939? 

Per dare maggiore risalto alla trasformazione del sito e potenziare il valore architettonico dell’opera si mostrano a confronto il disegno di Michele Ciulla, unico documento finora reperito, e fotografia del prospetto appena realizzato. 


L’elencazione delle delibere può continuare ma chiudiamo con la n. 31 del 19-02-1938, a firma del Barone Michele Tortorici di Michele, l’ultima del mandato a Podestà, con la quale si approvava la contrattazione del mutuo con la Cassa DD. e PP. di £. 455.580 per le opere della rete idrica interna. Il Barone Michele Tortorici resta uno dei Sindaci più famosi che ha segnato la storia della nostra cittadina. È entrato nella leggenda e tutto quello che di buono s’è realizzato a Pietraperzia nella prima metà del 1900, la gente comune l’attribuisce al Barone Tortorici che fu onorato da quattro mandati, detiene il primato di Primo Cittadino più giovane, almeno fino al 2012, Governò per 4567 giorni.

Giovanni Culmone