Visualizzazione post con etichetta Salvatore Di Gregorio. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Salvatore Di Gregorio. Mostra tutti i post

01 febbraio 2018

Dietro le quinte dell' "Unificazione" d'Italia



Innanzitutto grazie al sign. Di Gregorio per il suo accurato e accorato commento. Mi riempie di gioia vedere come il nostro non sia un blog di “sola lettura”, perché le sue parole hanno cucito attorno alla mia intervista il sottile filo di un dialogo che ha dato a me preziosi spunti e da cui spero ciascuno possa ricavarne altri.

Le mie parole (e insieme di Tomasi) “dovremmo far vituperio di tutta la Storia e riscriverla come si fa con un romanzo, ma da noi stessi! Quella sì sarebbe vera Storia”, sono volutamente sarcastiche, di amara ironia.  Sappiamo benissimo che la Storia e la Letteratura sono due approcci completamente diversi alla realtà – l’una oggettiva e basata su fonti storiche (o almeno così dovrebbe essere), l’altra soggettiva e basata sulla personale visione di uno scrittore che si fa filtro e lente per l’interpretazione della realtà stessa - anche se a volte, nel cosiddetto «romanzo storico» le due tendono a intrecciarsi. Ma, considerate le verità parziali e distorte  che i libri di storia ci raccontano sul Risorgimento (non è un caso che in riferimento agli eventi di quegli anni  si parli sempre di «retorica del Risorgimento» o di «mito del Risorgimento», diciture che tradiscono già una discrepanza fra la Storia e la realtà del fatti), talvolta il lettore troverà più verità in un romanzo che in un manuale.

Consideriamo, per esempio, i plebisciti di annessione. Lei scrive che «nel 1860, la stragrande maggioranza dei siciliani partecipò  schierandosi in favore della soluzione unitaria e facendo propria la parola d’ordine “Italia e Vittorio Emanuele”». Prendiamo in esame un manuale, una fonte storica e un romanzo.

La foto ritrae le pagine di un manuale di storia oggi (nel 2018! E non è di certo l’unico) in uso in una scuola media di Catania. Vi si legge a chiare lettere che «In ottobre la Sicilia e l’Italia meridionale, con un plebiscito, votarono con il 99% di sì l’annessione al Regno di Sardegna».



Le parole che seguono sulla dinamica delle votazioni sono di Filippo Curletti, agente segreto di Cavour, modenese che partecipò in prima persona alla gestione dei seggi nella sua città. Prima di morire Filippo chiamò un notaio e fece le sue confessioni, immediatamente intercettate e segretate dal governo militare, pubblicate solo 150 anni dopo. Afferma Curletti:

«Ci eravamo fatti rimettere i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori. Preparammo tutte le schede per le elezioni dei parlamenti locali, come più tardi pel voto dell’annessione. Un picciol numero di elettori si presentarono a prendervi parte: ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti.
Non è malagevole spiegare la facilità con cui tali manovre hanno potuto riuscire in paesi del tutto nuovi all’esercizio del suffragio universale, e dove l’indifferenza e l’astensione giovavano a maraviglia alla frode, facendone sparire ogni controllo [...] In alcuni collegi, questa introduzione in massa degli assenti nelle urne, - chiamavamo ciò “completare la votazione”, - si fece con sì poco riguardo che lo spoglio dello scrutinio dette un numero maggiore di votanti che di elettori inscritti».

Sottolineo che Curletti è modenese e afferma che «d’altronde le cose non avvennero diversamente a Parma ed a Firenze». Figurarsi al Sud! L’On. Angelo Manna, che nel 1991 chiedeva in Parlamento di desecretare dei documenti che lo Stato tiene ancora oggi nascosti, nella sua storica interpellanza parlamentare, ribadiva come a Napoli appena l’1,9 % degli aventi diritto si fosse veramente recato alle urne in quel fatidico ottobre del 1860. Quel Sud dove i cosiddetti “Briganti”, i quali altro non erano che patrioti e partigiani in lotta per liberare il loro Regno invaso, lottarono per più di dieci anni dopo l’“unificazione” e dove lo “Stato unitario” chiuse le scuole per ben 14 anni (fino al 1875) per evitare che l’insurrezione si spandesse a macchia d’olio.

Riporto qui di seguito la versione che Giuseppe Tomasi di Lampedusa dà del medesimo plebiscito nel suo romanzo storico, dalla prospettiva di Donnafugata. Capitolo III, datato proprio ottobre 1860:

« Alla folla invisibile nelle tenebre [Don Calogero] annunziò che a Donnafugata il Plebiscito aveva dato questi risultati:

Iscritti 515; votanti 512; "si" 512; "no" zero.

[...] Il fresco aveva disperso la sonnolenza di don Ciccio, la massiccia imponenza del Principe aveva allontanato i suoi timori; ora a galla della sua coscienza emergeva soltanto il dispetto, inutile certo ma non ignobile. In piedi, parlava in dialetto e gesticolava, pietoso burattino che aveva ridicolmente ragione.
"Io, Eccellenza, avevo votato 'no'. 'No,' cento volte 'no.' Ricordavo quello che mi avevate detto: la necessità, l'inutilità, l'unità, l'opportunità. Avrete ragione voi, ma io di politica non me ne sento. Lascio queste cose agli altri. Ma Ciccio Tumeo è un galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sfondati (e percuoteva sulle sue chiappe gli accurati rattoppi dei pantaloni da caccia) e il beneficio ricevuto non lo aveva dimenticato; e quei porci in Municipio s'inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco! Per una volta che potevo dire quello che pensavo quel succhiasangue di Sedàra mi annulla, fa come se non fossi mai esistito [...] A questo punto la calma discese su Don Fabrizio che finalmente aveva sciolto l'enigma; adesso sapeva chi era stato strangolato a Donnafugata, in cento altri luoghi, nel corso di quella nottata di vento lercio: una neonata, la buonafede».
(Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 2006, pp. 122-125).


Ecco il senso delle mie parole: considerate le bugie e le omissioni della Storia ufficiale, c’è talvolta più verità nella letteratura che non altrove, soprattutto quando la letteratura si fa interprete di un’esigenza di ricostruzione storica, come nel caso del Gattopardo. E non perché ognuno debba scriverla come gli pare, ma perché nel paradosso di una “Storia” ufficiale che non ci racconta la verità, un romanzo – in questo caso il Gattopardo – sa essere più vero della “Storia”.

Con ciò non nego assolutamente l’operato e gli intenti completamente diversi di chi un’idea di Italia ce l’aveva eccome. Non nego i misfatti e il malgoverno dei Borbone (soprattutto dell’ultimo, e soprattutto in Sicilia, lontana da Napoli e perciò non gestita allo stesso modo). Non  nego il valore delle insurrezioni che avevano preceduto il 1861 né le divisioni interne e le debolezze del Regno delle Due Sicilie, che altrimenti non sarebbe affondato in quel modo (nessun generale si sarebbe fatto vergognosamente corrompere come il Landi a Calatafimi). Non nego la volontà di liberazione dallo straniero che ferveva nel cuore di veri patrioti. Dico semplicemente che il tutto è finito nell’alveo della strumentalizzazione delle idee, piegate ad esigenze altre.

Fra qualche anno gli “storici”- o meglio i “propagandisti” al servizio del potere costituito, che bisogna distinguere dai veri storici -  scriveranno sui manuali che i primi decenni del XXI secolo sono stati caratterizzati da numerosi attacchi terroristici ad opera di folli kamikaze che terrorizzavano il povero Occidente causa la diffusione dell’assurdo credo in un dio Allah, in nome del quale si combatteva una guerra santa contro gli infedeli da convertire a suon di bombe. Ma in pochi diranno che “jihad” in realtà in arabo equivale al tedesco “Streben”: “aspirazione" "tensione", una “tendenza infinita al superamento del finito” in direzione di Dio e di un sé più autentico. In pochi diranno che la strumentalizzazione che ne ha fatto il potere politico, l’ha trasformata in una guerra tra fratelli, mentre chi vuole veramente tutto questo rimane nell’ombra. E la storia vera, quella di un ISIS orchestrato dalla CIA, per autorizzare gli USA a combattere per quelle risorse economiche, che guarda caso pullulano in quei territori, diverrà “Controstoria del Terrorismo” - così come le reali vicende del Risorgimento passano oggi sotto l'etichetta di "Controstoria del Risorgimento" -. La democrazia resterà un costume da scena, da far indossare di volta in volta a questa o quella guerra, per mascherare le vere cause di appropriazione di risorse che la sottendono. Perché aiutare solo certi popoli a “conquistare” la democrazia? E gli altri? Gli altri forse non la meritano?  No. Gli altri non possono dare nulla in cambio. 
Ecco, la dinamica di "liberazione dallo straniero" di un Regno come quello delle Due Sicilie, governato da sovrani che erano spagnoli sì, ma napoletani da quattro generazioni, mi riporta sulla medesima scia delle "democratizzazioni" forzate di oggi, fatte più per interessi economici che non per un intento reale di Liberazione.

Lei mi chiede perché  la definisco «pseudo-unificazione».

  • Già nel 1832 Ferdinando II di Borbone aveva proposto al cugino Carlo Alberto di Savoia una “Confederazione di Stati”, ma nel rispetto delle libertà di ognuno di essi, per dare vita ad una compagine territoriale forte e indipendente nei confronti delle mire degli stati stranieri. Il Regno delle due Sicilie, che cercava di difendere a tutti costi il proprio diritto di neutralità, era, inoltre, il più ricco d’Europa dopo le stesse Inghilterra e Francia. Questo chiaramente disturbava l’Inghilterra che, da potenza navale mondiale qual era, non poteva permettere che proprio nel cuore del Mediterraneo – porta d’accesso a ben tre continenti quali l’Africa, l’Asia e l’Europa stessa – dominasse una potenza in continua crescita come quel Regno la cui flotta era passata da 2.387 navi nel 1818 a 9.848 navi nel 1860. Nel 1869 si sarebbe ufficialmente aperto il Canale di Suez e gli inglesi dovevano assicurarsi a tutti i costi il pieno controllo del Mediterraneo a scapito dei francesi e degli stessi Borbone (questo era anche lo scopo del Protettorato e spiega anche la corsa forsennata per quel piccolo pezzo di lava emerso al largo delle coste siciliane già nel 1831). Il Protettorato di cui parla lei, visto da questa prospettiva, acquista una luce del tutto diversa: gli inglesi non ricoprono un ruolo filo-borbonico perché favoriscono i Borbone né tantomeno perché vogliono “ripristinare l’ordine”: essi vogliono assicurarsi di non perdere il controllo su quei territori. Con gli stessi accordi di Plombières ancora Napoleone III sperava di collocare sul trono bonbonico un nipote di Gioacchino Murat, ma gli inglesi non l’avrebbero mai permesso. Spodestare un nemico al centro del Mediterraneo per assistere all’ascesa di uno ancora più grande come la Francia sarebbe stato contro ogni logica. Meglio tenere sotto scacco Cavour e il piccolo Regno del Piemonte, favorire la sua espansione e farlo ri-nascere come stato direttamente dipendente dall’Inghilterra fin dalle sue stesse origini. L’Inghilterra supportava economicamente già da tempo i tentativi del piccolo Regno del Piemonte di inserirsi nello scacchiere politico europeo, poiché aveva intuito che renderlo dipendente da un punto di vista finanziario, sarebbe equivalso ad asservirlo a sé da un punto di vista politico. E così fu: al momento dell’ “unificazione” il Piemonte aveva già un debito di un miliardo di lire con le banche londinesi ed era sull’orlo del fallimento. Come rimediare? Era conveniente per il Piemonte annettere un Regno che aveva due volte più monete (chiaramente indice, oltre che di ricchezza in sé, di una florida economia) di tutti gli altri Stati della penisola uniti assieme. Quello che segue è il quadro della situazione finanziaria dei Regni della penisola al momento dell’annessione.

Quantità di monete circolanti nella Penisola per un tot. di 668 milioni così ripartiti:

Regno delle Due Sicilie         milioni 443,2
Lombardia                                              8,1
Ducato di Modena                                  0,4
Parma e Piacenza                                    1,2
Roma                                                     35,3
Romagna, Marche e Umbria                 55,3
Sardegna                                                27,0
Toscana                                                  85,2
Venezia                                                  12,7

(Da Francesco Saverio Nitti, Scienze delle Finanze, Pierro, 1903, p. 292)

Ma il Piemonte non avrebbe mai potuto sostenere da solo il peso di quella conquista. Lo stesso Garibaldi nelle sue memorie dichiara: «senza l’aiuto di Palmerston Napoli sarebbe ancora borbonica e senza l’ammiraglio Mondy non avrei potuto giammai passare lo Stretto di Messina». Come avrebbero potuto appena mille uomini conquistare un intero regno nel giro di qualche mese, se la massoneria inglese non avesse investito una montagna di denaro per "comprare" generali borbonici, bande criminali e pagare lo stesso Garibaldi?  Ecco, io questa non la definirei “unificazione”, ma “corruzione” e “conquista militare”, peraltro di basso grado, fatta com’era senza nemmeno una dichiarazione di guerra.

  • Non prelude certo ad una degna unificazione uno sbarco fatto in Sicilia assicurandosi prima la collaborazione delle cellule criminali presenti sul territorio. Totò Riina al processo degli anni Ottanta affermò: «Io amo l’Italia, per la quale la mia famiglia ha dato il suo fondamentale appoggio preparando lo sbarco di Garibaldi». E Antonio Patti, mafioso, al Sostituto Procuratore della Repubblica di Palermo nel 1997: «Garibaldi poté sbarcare e spostarsi liberamente in Sicilia perché il Piemonte versò i soldi alla mafia assicurandosene la collaborazione». Non stupisce, al momento dell’instaurazione della dittatura garibaldina in Sicilia, leggere fra i Decreti dittatoriali del 17 agosto: «si ordina dichiararsi nulle, e come non avvenute, tutte le condanne emesse su i fatti, che durante il governo borbonico, si consideravano come reati, ed i condannati doversi intendere rientrati ipso jure nello esercizio di tutti i diritti civili e politici». Lo stesso Rocco Chinnici, capo del Pool Antimafia coadiuvato da Falcone e Borsellino, giudice assassinato nel 1983, affermava: «la mafia come associazione e con tale denominazione prima dell’Unificazione non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia». A Napoli il Prefetto di polizia Liborio Romano, futuro ministro del Regno d’Italia, in segreto contatto con Camillo Benso conte di Cavour e Garibaldi, convocò Salvatore de Crescenzo, capo delle locali bande camorriste, e lo arruolò nella Guardia cittadina insieme ai suoi affiliati. Ora la camorra era in coccarda tricolore e Tore ‘e Crescienzo, forte di legittimazione e protezione, diveniva affermato camorrista. Nell’ottobre dello stesso 1860 ebbe l’incarico di vigilare sulle urne a voto palese in occasione del plebiscito di annessione. Il potere costituito scende a patti con la criminalità, ne legittima l’operato e così si assicura l'assenso dei territori da annettere. Ecco, io questa non la definirei “unificazione”.
  • Massimo d'Azeglio pronunciò la famosa frase "Fatta l'Italia bisogna fare gli italiani". Ma ci sarebbe stato bisogno di "fare" un  popolo se questo si fosse sentito già tale? Quello che seguì  l' "unificazione" fu un abominevole sterminio, che i libri di storia tacciono o citano sotto la semplicistica e fuorviante etichetta di "brigantaggio", lasciando intendere che lo stato unitario dovette quasi sobbarcarsi una immane campagna di lotta alla delinquenza (in un Sud che d'improvviso si era affollato di malfattori rifugiatisi sui monti). E sì che ai veri briganti gli stessi Borbone avevano dato la caccia, ma non erano migliaia, e non avevano le divise borboniche addosso, come quelli che i piemontesi trucidavano ancora più di dieci anni dopo l'Unità; non erano donne, vecchi e bambini come quelli che il generale Cialdini massacrò a Pontelandolfo e Casalduni; non erano inermi contadini come quelli che il generale Pinelli trucidò in Abruzzo e nel Molise. Ogni anno piangiamo sugli ebrei e sulla barbarie nazista, ma nessun giorno della memoria ricorda le migliaia  di soldati borbonici (sembra siano stati almeno 70.000) morti nei primi lager della storia europea (molto tempo prima dei più famosi Auschwitz o Dachau!), che venivano deportati a Genova e da lì smistati nei vari campi di concentramento. A  Fenestrelle coloro che si rifiutavano di rinnegare il giuramento a Francesco II, venivano spogliati, imprigionati e, malnutriti com'erano, una volta morti venivano sciolti nella calce viva. Ecco, io questa non la definirei "unificazione", ma "eccidio". Ancor più grave se ad essersi macchiati le mani di sangue sono stati quelli che avrebbero dovuto essere loro "fratelli".
Nessuna vena di rimpianto, dunque, per il Regno delle Due Sicilie, né nostalgia (nel senso proprio greco del termine: nóstos = ritorno), giacché non si può avere voglia di tornare a qualcosa che non si è nemmeno vissuto. Da donna del XXI secolo, italiana e cittadina europea, ex-universitaria che è vissuta per anni a contatto con il resto d’Italia (che amo e stimo proprio per la sua diversità e per la ricca varietà di cultura, tradizioni e stile di vita), non sono di certo neoborbonica, né potrei esserlo. Ciò che sento, e che credo debba essere l’intento che muove ogni studioso e ogni singolo uomo, è un grande desiderio di Verità.


Valeria Bongiovanni

12 gennaio 2018

Tra letteratura e disillusioni risorgimentali

Cari amici lettori, alcune risposte del principe Tomasi di Lampedusa all’intervista impossibile di Valeria Bongiovanni e un commento sempre di Valeria all’articolo L’isola che se ne andò, riguardanti il risorgimento e alcune valutazioni storiche postunitarie, ha indotto Salvatore Di Gregorio a rispondere a Valeria e tornare a parlare sull'influenza e sul ruolo che gli inglesi ebbero nella Sicilia dei Borboni e della successiva disillusione degli ideali risorgimentali.




Davvero interessante lo scoop di Valeria Bongiovanni che è riuscita non solo a rintracciare Tomasi di Lampedusa ma anche ad impegnarlo in una conversazione brillante e ricca di spunti.
E’ stata veramente brava l’intervistatrice a condurre la discussione tra letteratura e storia fino a punzecchiare il nostro autore ricordandogli l’accusa infamante che gli toccò di ricevere per avere fatto con la sua opera vituperio della memoria del risorgimento.
E l’autore del Gattopardo rivendica il diritto dell’artista di scrivere la storia come un romanzo, ossia come la sente (verrebbe da dire come gli pare).
Ma questo è appunto privilegio dell’arte e questa è la libertà dell’artista; la ricerca storica non gode degli stessi privilegi e deve utilizzare altri metodi ed attenersi ad altre regole. E tuttavia (pur dovendo riconoscere questa licenza artistica) mi ha impressionato lo stesso il giudizio tagliente del nostro autore sull’epopea unitaria del 1860 come l’opera di un manipolo di malfattori (o poco più) al soldo dell’Inghilterra. Ho trovato altrettanto interessante anche il commento di Valeria al post L’Isola che se andò nel quale  viene ripreso il tema dell’influenza inglese nelle vicende siciliane preunitarie ed unitarie ricavandone un giudizio non meno tagliente di quello del suo intervistato con in più una vena di rimpianto per quel regno delle due Sicilie cuore pulsante del Mediterraneo.
Indubbiamente il ruolo e l’interesse dell’Inghilterra nelle vicende dell’isola in quegli anni è questione acclarata sotto il profilo storico.
Le vicende siciliane del periodo, del resto, stanno a pieno titolo all’interno delle dinamiche storiche dell’Europa a cavallo dei due secoli: in quel contesto la Sicilia è per gli inglesi un pezzo importante della strategia di contenimento del predominio napoleonico nell’Europa. Anche nel mediterraneo si gioca la partita per l’egemonia sul continente. E l’influenza inglese sull’isola fu importante ed incisiva nelle vicende politiche quanto in quelle economiche. Ma, a ben vedere, in alcuni passaggi, gli inglesi svolsero perfino un ruolo filo borbonico: non bisogna dimenticare che allorché Murat si insedia a Napoli scacciandone i Borboni che si ritirano a Palermo, il Regno di Sicilia nasce come sostanziale protettorato inglese sotto la monarchia borbonica; la fine del Regno di Sicilia comincia con la fine dell’emergenza napoleonica e con i nuovi equilibri europei dettati dai vincitori (anche dagli inglesi dunque) che risistemarono l’Europa e, in quello scacchiere, favorirono il rientro dei Borboni a Napoli ripristinando il Regno delle due Sicilie con profonda frustrazione delle velleità autonomistiche della Sicilia.
E pagine della storia europea furono anche gli eventi del 1848 e del 1860 nei quali si combinarono i moti sociali e di pensiero che agitarono le forze e gli interessi locali che ne furono protagoniste e le strategie delle potenze maggiori (Francia, Austria, Regno pontificio non meno dell’ Inghilterra) che operarono (ieri come oggi) per orientare la direzione degli eventi e, a condizioni mutate, le cose presero una direzione nel 48 e un’altra diversa nel 60.
In questo caso, lo sbocco (il lato vincente delle cose, come lo definisce Renda nella sua Storia della Sicilia) fu il compimento del processo unitario e, dentro una nuova realtà statuale, l’inizio di una nuova storia per la Sicilia: la nascita di un nuovo ordine politico e sociale. Una storia  che non può essere raccontata (e tanto meno compresa) ricorrendo ancora alla suggestione di una isola immutabile e mai protagonista della propria storia. Quella non fu una storia semplicemente subita anche se la scintilla venne appiccata da fuori.
Nel 1860, la stragrande maggioranza dei siciliani partecipò  schierandosi in favore della soluzione unitaria e facendo propria la parola d’ordine “Italia e Vittorio Emanuele” . Una scelta di campo che attraversò le città e le campagne; che  coinvolse strati sociali i più diversi; che accomunò moderati, e democratici; perfino gli autonomisti e i nostalgici del Regno di Sicilia scelsero la prospettiva dell’unificazione per regolare i conti con lo Stato borbonico e riscattare il 48.
Naturalmente se la scelta fu generalizzata, le motivazioni e le aspettative che vi furono riposte erano le più differenti; tuttavia ciascuna forza e ciascuna istanza  confidava e scommise su quella condizione di ripartenza per potere giocare la propria partita e migliorare la propria condizione (o mantenere il proprio privilegio).
E fu una partita dura e difficile che segnò vincitori e sconfitti dentro la società siciliana e nel rapporto tra la Sicilia e la nuova realtà statuale. Nel sentimento dei siciliani e nelle vicende politiche che segnarono iI periodo postunitario, i segni prevalenti furono indubbiamente (ed a ragione) quelli delle aspettative tradite e della disillusione; ma mai lo scontro sociale (anche nelle sue fasi più cruente) e la discussione politica vennero condotte guardando all’indietro, a quella che era stata la Sicilia prima dell’unificazione; l’accusa peggiore che veniva fatta al regno sabaudo era quella di trattare la Sicilia così come i Borboni l’avevano trattata. L’accusa che Napoleone Colajanni lanciò al governo sabaudo fu di operare in continuità con i borboni.



Il giudizio storico sull’unificazione (a proposito perché pseudo unificazione?) è questione che ancora appassiona e divide e questo è bene: discutere ed appassionarsi è il sale della conoscenza ed è condivisibile l’opinione che su quelle pagine di storia va recuperato un giudizio più equilibrato e meno celebrativo.
Ma siccome questa è questione troppo complessa per pensare di poterne fare una discussione appena appena decente nelle poche righe che consentono questi interventi e, per quanto mi riguarda, anche al di fuori della mia competenza preferisco concludere ritornando al punto di partenza ossia alla letteratura.

Lo sfogo“
Meglio prima! Meglio prima!”  (Pirandello- I vecchi e i giovani) di Caterina Laurentano, per come lo capisco io, non è che vuole evocare un passato che viene rimpianto e al quale si anelerebbe tornare ma è il paradosso cui ricorre la protagonista per esprimere la rabbia di chi aveva creduto negli ideali del 48 e del 60 e per essi aveva lottato e sofferto (aveva perduto la dote, il titolo e il marito) di fronte al loro tradimento e di fronte ad una realtà per lei inaccettabile (il “meglio morti” che si usa tante volte per esprimere frustrazione di fronte l’insopportabilità della condizione che si vive più che la volontà di uscire dalla vita).

Salvatore Di Gregorio



04 gennaio 2018

Invito alla lettura: L'isola che se ne andò




L’invito ai soci a donare periodicamente un proprio libro alla Biblioteca è tra le tante iniziative promosse dall’Associazione amici della biblioteca di Pietraperzia; non l’ho ancora fatto perché ultimamente non mi è stato possibile venire in paese: mi riprometto di ovviare al più presto.
Ho inteso l’invito non solo come un modo coinvolgente di farci sentire tutti in qualche modo partecipi dell’impegno a dare anche un modesto contributo ad arricchire il patrimonio librario comune della biblioteca, ma anche come una sollecitazione a comunicare esperienze di letture che ci sembra utile segnalare e magari condividere.
In questo caso avevo pensato ad un volumetto uscito qualche anno fa che ho incontrato per caso in una bancarella alla rassegna “La via dei librai” svoltasi a Palermo lungo il Corso Vittorio Emanuele, la scorsa primavera.


Il titolo del libro è “L’isola che se ne andò” ed il suo autore è Filippo D’Arpa, uno scrittore e giornalista palermitano.
Di che si tratta? Della cronaca di alcuni eventi accaduti in Sicilia nella seconda metà del 1831, narrati in forma romanzata ossia mischiando e facendo interagire i fatti ed i protagonisti reali di quegli eventi con personaggi ed eventi collocati in quella medesima scena, dalla vena creativa dell’autore.
L’isola che se ne andò è il lembo di terra che, emersa dal fondo del mare nel luglio del 1831 a seguito di una serie di eventi eruttivi verificatisi nel canale di Sicilia, tra Sciacca e l’isola di Pantelleria, si allargò in estensione fino ad una superficie di circa 4 km² raggiungendo i 65 metri di altezza fuori dal mare.  Il fenomeno incontrò un comprensibile interesse scientifico ma ancor più alimentò una disputa politico-diplomatica riguardante i diritti sul possesso su quella terra emersa e che vide protagoniste, oltre che, ovviamente, il  Regno delle due Sicilie, Inghilterra e Francia che ne considerarono la potenziale valenza strategica nel Mar Mediterraneo fino ad immaginarla come punto di riferimento e possibile approdo delle loro flotte, sia mercantili che militari.
Seguì una corsa delle marine di quelle nazioni ad osservare da presso il fenomeno, a studiarne la natura, a controllarsi a vicenda ed a posizionarsi con l’intento di piantare ciascuna le proprie bandiere sull’isola ed offrire la nuova terra ai rispettivi sovrani.
Per quanto il fenomeno fosse stato osservato per primo dal capitano Trifiletti, comandante di un brigantino che trasportava merci da Palermo a Malta ed a riferirne alle autorità del Regno delle Due Sicilie, furono gli Inglesi a muoversi per primi.
Questi, già di stanza nell’isola di Malta, teorizzarono che trattandosi di “insula in mari nata” era da considerarsi alla stregua di res nullius sicché la prima nazione a mettervi piede avrebbe potuto rivendicarne legittimamente il possesso; nel mese di agosto il capitano della marina britannica Jenhouse annunciò (e chi poteva dimostrare il contrario?) di essere sbarcato sull’isola e di avervi piantato la bandiera britannica  e la chiamò isola "Graham".  
E i francesi? Non potevano certo stare a guardare. Magari non proprio navi militari ma una missione scientifica andava inviata con qualche fucile a bordo non si sa mai.  Il settembre successivo anche loro erano sull'isola (che ribattezzarono "Iulia") a studiarla e ad issare  sul suo punto più alto la loro bandiera (non si sa mai).  
In tutto questo il re Ferdinando II (in quel mese di luglio a Palermo per partecipare al festino di S. Rosalia) che rivendicava l'isola come territorio dello stato borbonico, essendo questa sorta nella acque siciliane, inviò sul posto la corvetta bombardiera Etna al comando del capitano Corrao  il quale (anche lui) sceso sull'isola vi piantò la bandiera borbonica e la battezzò “Isola"Ferdinandea" in onore del sovrano del Regno delle due Sicilie.  
E la nobiltà siciliana (che aveva più di un motivo di astio verso la dinastia borbone che aveva tradito la Sicilia e la Costituzione)? Cominciò a coltivare l’idea che quella terra si potesse barattarla con gli inglesi: l’isola a voi e la Sicilia ad un re siciliano “che si controlla meglio”.
Ma su di essa discettò dottamente anche la sapienza popolare: in punto di scienza, in punto di religione e in punto di diritto.
Certo non ci si poteva accontentare delle spiegazioni del Gemmellaro o dello Scinà (grandi scienziati per carità, ma…): vulcano tra i tanti in Sicilia.
Salvatore Rosa riverito ricevitore doganale in quel di Sciacca (con riconosciuto talento in campo scientifico e che “se avesse studiato un po’ di più non starebbe a Sciacca”) era convinto che stava cominciando il finimondo e che altra “terra si sarebbe aggiunta…forse più grande della Sicilia stessa, magari la terra che ci unirà alla nostra madre greca”.  Altri dotti riconobbero i segni dell’intervento diretto del maligno perché tale era il tanfo sulfureo che emanava dall’isola che doveva per forza provenire direttamente dagli inferi.
Totò e u zu Mario discettarono su di essa in punto di diritto con il primo che chiedeva al secondo (“con l’ultimo bicchiere di vino in mano”) ma “l’isola di chi è? Di chi se la prende rispose u zu Mario”.
Né mancò di alimentare la vena compositiva di chi volle celebrarla in versi:
Splendida forma che surgisti dal mare
Schiumosa ragione portasti la vita
Furente e possente t’alzavi
Minchia, però, come puzzavi!
A quel punto, dopo che aveva già collezionato tanti nomi differenti, dopo che tre differenti bandiere sventolavano su di essa; dopo avere irretito politici, militari, diplomatici, diviso scienziati ed appassionato la popolazione, quella mitica apparizione cominciò a sprofondare  finché, nel gennaio del 1832, ritornò sotto il mare sottraendosi a tutti quanti i suoi pretendenti: metafora perfetta di una disputa rimasta appesa al nulla. 




U “cuntu” dell’isola Ferdinandea rivive nelle strofe del cantastorie:
Si conta e si racconta a voi signori
La storia di una bella sirenetta
Tra gli scogli, pietre, sabbia e il suo sole,
stava seduta in mezzo al mare.
Ritorna, s’affonda
nel fondo più fondo
nel cuore del mondo:
con l’onda del mare 

Salvatore Di Gregorio


18 ottobre 2017

Pietraperzia nella letteratura




Renato Guttuso
 Occupazione delle terre incolte in Sicilia
A proposito diri ferimenti a Pietraperzia, contenuti in opere letterarie, è capitato di
discuterne tra me e Paolo Zappulla qualche mese fa parlando (proprio nei locali della biblioteca) del romanzo di Pirandello” I vecchi e i giovani”. Dalla mia lettura del romanzo avvenuta negli anni del liceo (che per me significa tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso: detta così mi fa impressione) non avevo conservato il ricordo della citazione di Pietraperzia a proposito della ricostruzione dei moti dei fasci siciliani, della loro repressione e della dichiarazione dello stato d’assedio in Sicilia. Di quella drammatica pagina di storia che ha riguardato anche il nostro comune (culminato nel capodanno 1894 con un eccidio che contò otto morti e 15 feriti tra la popolazione) avevo letto e mi ero documentato in altre opere storiografiche, ma quel riferimento nell’opera di Pirandello proprio non la ricordavo più.
Ciò mi ha motivato a rileggere il romanzo e non me ne sono pentito. La rilettura ( a distanza di tempo) non è solo ripercorrere emozioni già vissute ma scoprirne di nuove; emozioni che cambiano e si arricchiscono con il tempo e l’esperienza della vita; come sono appassionato delle letture sono un convinto sostenitore delle riletture. Per tornare alla questione dei fasci siciliani e delle vicende di Pietraperzia, varrebbe certamente la pena fare una ricognizione dei materiali storici disponibili e tornare a parlane per approfondire una pagina di storia delle nostre comunità che, per come si sviluppò, non è stata storia locale, ma storia nazionale.

Salvatore Di Gregorio