02 febbraio 2019

"Il Dubbio del Conte". Un Racconto di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html


Aspettavano il signor conte Pellegrinetti da una decina di giorni, da quando il fattore Morini aveva annunciato la visita in modo confuso e un po' misterioso, e non si capiva se lui ne sapeva poco o se non voleva ancora dividere il suo segreto con i contadini.
Poi anche il prete, dopo la messa, cominciò a ripetere:
-Il signor conte ci farà presto l'onore di una visita.-, e il tono era festoso ma anche persuasivo, compunto e si capiva che il prete chiedeva di fargli fare bella figura.
Il conte Leopoldo nei suoi cinquanta anni di vita non era mai stato una sola volta nelle tante vaste terre che possedeva. Suo padre Urbano, morto proprio il primo giorno del 1900, aveva chiamato quel suo unico figlio al capezzale e gli aveva fatto giurare che si sarebbe interessato, finalmente, di possedimenti e palazzi, perché fino a quel momento non l'aveva fatto. Fino a quel gennaio 1900, Leopoldo Pellegrinetti non aveva mai voluto sapere niente di contabilità e investimenti, non conosceva le proprietà di famiglia e quando il padre cercava di fargliene un resoconto completo, lui si annoiava e si distraeva tanto che il vecchio aveva smesso di tentare.
-Bisogna tornare alla terra. Bisogna tenere alla terra. Perché la terra è la sola sorgente e garanzia di ogni ricchezza, morale e materiale.- diceva spesso Urbano al figlio, che una volta ribatté:
-Come faccio a tornare dove non sono mai stato?- e lo disse sorridendo, fiero della sua arguzia. Invece il padre attaccò un discorso accorato, lunghissimo, ed aveva gli occhi afflitti.
-Quel coglione si mangerà tutto in due anni con le puttane e le carte.- diceva sempre più spesso il conte padre. In effetti, Leopoldo non aveva fatto altro che questo: consumare i soldi della famiglia, vivere sul lustro e il nome della famiglia. Pareva impegnato a recitare una parte: il rampollo dissipatore, che non ha alcuna incertezza e vergogna nell'essere mantenuto e nell'evitare anche la sola parola lavoro.
Il vecchio conte aveva fatto uscire i medici ed aveva voluto a sé quello che i domestici chiamavano ancora il contino, sebbene avesse i capelli grigi e, alto e tumido, pesasse più di un quintale.
Leopoldo andò, seccato e frastornato e temendo di dover vedere il vecchio morirgli davanti.
Pensava, mentre entrava nella camera quasi buia, dove ristagnava l'aria greve e rancida delle stanze dei malati, pensava che avrebbe dovuto fare un gesto affettuoso, prendere le mani del moribondo, forse addirittura ci si aspettava che lo baciasse in fronte. C'erano lì accanto alcuni parenti, c'erano i domestici, i medici e due infermiere, c'era il prete don Fumagalli.
Lui doveva recitare la parte del figlio affranto. Il vecchio fece appena in tempo a fargli giurare che avrebbe visitato tutti i poderi che, di lì a poco, sarebbero diventati suoi.
Quando il vecchio conte iniziò a rantolare, Leopoldo scappò dalla camera, urlando per chiamare i medici che spinse dentro. Poi corse nel salotto e si buttò sfinito sul divano, e restò a guardare il quadro sopra il caminetto e lo fissò così a lungo che le Muse e Apollo cominciarono ad ondeggiare come se le vedesse dietro una fiamma.
Leopoldo aveva rimandato quanto più a lungo possibile la visita alle sue terre. Ma non poteva continuare a farlo. Aveva giurato al padre morente, e il giuramento fatto sul letto di morte è due volte sacro: don Fumagalli glielo aveva spiegato molto chiaramente. Poi glielo aveva ricordato anche sottovoce, durante la confessione.
Il conte Leopoldo Pellegrinetti arrivò dunque al suo podere Spadone nella tarda mattinata del 22 maggio 1900.
Scese dal calesse e subito il fattore Morini gli andò incontro. Il conte si asciugava il sudore sfregando irosamente il fazzoletto sulla nuca, sul mento, sulla bocca, sulla fronte. Diceva:
-Ma che caldo! Che caldo maledetto! Se sapevo che era così caldo, rimandavo questa gita all'autunno!-
Morini fece un inchino e, indicando con un grand'arco del braccio i contadini allineati, attaccò il discorso di benvenuto:
-Signor conte eccellenza, i contadini che hanno l'onore di lavorare per voi la vostra terra vi porgono il saluto della gratitudine e della riconoscenza.-
Queste poche solenni parole le aveva ideate don Fumagalli, che se le assaporava nella bocca chiusa mentre Morini le declamava affannato.
Il conte si passò ancora due tre volte il fazzoletto sulla faccia, guardò stupefatto Morini come se gli fosse apparso in quell'istante emerso dal suolo e fece:
-Eh?-
Morini riprese:
-Signor conte eccellenza, i contadini che hanno l'onore...-
Pellegrinetti lo interruppe:
-Sì sì. Grazie. Ho capito. Cosa dobbiamo fare adesso? Avete un po' d'acqua fresca?-
Il fattore fu terrorizzato: non aveva pensato alla sete del conte. Restò senza parole, con la bocca semiaperta a guardare la faccia lustra di sudore del conte, il quale domandò ancora:
-Si può bere?-
Morini si rivolse ad una donna della fila:
-Vai a prendere dell'acqua fresca per il signor conte!-
La donna, si chiamava Ada Canestri, chiese timorosa:
-L'acqua del pozzo?-
-No!- urlò il conte -Che pozzo? No! Non voglio mica prendermi il tifo! No! Niente pozzo!-
-Noi abbiamo solo l'acqua del pozzo.- rispose la donna, confusa, abbattuta, come ammettesse una colpa.
Il conte disse duramente:
-Berrò dopo, a casa mia. Vediamo di far presto.-
-Volete parlare con i contadini, signor conte?- gli domandò il fattore.
-Ma...non so... sì sì...parlo con i contadini...-
Morini e il prete avevano selezionato le persone da presentare al conte. Avevano lasciato in casa, e che non si facessero vedere, i vecchi, i malati, gli sciancati e i bambini più piccoli.
C'era una dozzina di contadini, donne e uomini, che stavano allineati sull'aia. Avevano i vestiti della domenica, ma era comunque roba che parlava di miseria e di fatica.
Il conte Pellegrinetti, abbigliato alla cacciatora, li guardava e teneva sulle labbra un sorriso che pareva ormai una contrazione incontrollabile dei muscoli della faccia.
Guardava quella gente e sorrideva, ma non c'era niente di lieto in quell'incontro a cui lo aveva obbligato il padre morente. Li guardava e, in verità, gli sembravano grosse scimmie su due zampe: erano tutti un po' curvi, con la pelle scura e opaca come cuoio, gli occhi piccoli, affossati sotto la fronte bassa e schiacciati dagli zigomi alti. Avevano occhi sperduti.
Gli sembravano veramente una specie diversa di umanità. Le mani, soprattutto, erano strane e diverse: erano grosse, anche quelle delle donne, con le dita ripiegate verso il palmo, come non potessero distenderle del tutto, con le unghie larghe.
-Come state?- domandò ad Ada Canestri.
Lei rispose:
-Bene, signor conte.-
-E cosa fate?-
-Faccio le cose in casa. Pulisco. Tengo i bambini e preparo da mangiare.-

Poi il conte si rivolse all'uomo accanto a lei:
-Cosa fate?-
L'uomo trattenne il respiro come se si preparasse ad un salto, poi rispose:
-Io lavoro la terra del signor conte.-
-E come fate?-
-Faccio...lavoro la terra... la semina, il raccolto, l'aratura, tutto...il campo e l'orto...-

A Leopoldo parve di essersi interessato abbastanza. Si rivolse al fattore e disse:
-Tutto a posto i conti? Rende bene questo podere?-
Morini si affrettò a rispondere:
-Sì signor conte eccellenza. Se volete entrare un attimo a guardare i libri.-
Il conte annuì. Soprattutto voleva andare un po' al fresco.
Quando furono dentro casa, Morini gli aprì diversi registri grandissimi, aperti coprivano tutto il tavolo. Il conte guardò un po' le righe delle cifre, che gli parvero file di formiche. Si stancò presto e, mentre Morini si atteggiava ad amministratore fedele e devoto, iniziò a guardare fuori dalla finestra.
I contadini erano ancora là allineati, perché nessuno gli aveva detto di andarsene. Pellegrinetti vide che stavano fermi, in attesa, sospesi e incerti. Sembravano tristi.
-Quanto lavorano al giorno?- domandò Pellegrinetti.
Morini fece:
-Come scusi?-
-Quante ore lavorano tutti i giorni?-
-Dipende dalle stagioni. Anche tredici quattordici ore, delle volte.-
-E come fanno?-

Morini non sapeva che dire. Poi:
-E' il lavoro. Il loro lavoro è fatto così.-
Il conte guardò la terra che si perdeva fino alla linea dell'orizzonte: era come un mare calmo denso verde e brillante. La terra era gigantesca, teneva su la volta del cielo, e certamente quei piccoli uomini dovevano sudare sangue per avere dalla terra la ricchezza morale e materiale che diceva il vecchio conte Urbano.
La terra era infinita; anche il vento più veloce non poteva percorrerla tutta. E quelle povere figurine nere si spaccavano la schiena sotto il sole per chiedere alla terra che nutrisse la gente.
Confusamente, il conte Leopoldo pensò di cominciare a capire cosa intendeva dire suo padre. Non sapeva bene come esprimerlo, ma sentiva che la terra era davvero la madre, che poteva fare ogni cosa, buona o cattiva, e che i contadini lavoravano tanto per farsela amica, per chiederle -in cambio di tanta fatica- il pane e il vino.
E quella gente, pensava disordinatamente, non erano povere bestie, come sembravano, ma erano nati come tutti, rosa e teneri, e poi erano cambiati diventando parte della terra a cui davano la loro vita. Solo adesso, vedendo i loro occhi fermi, comprendeva che quegli uomini e quelle donne, che pure lo ringraziavano, avevano una dura dignità solenne e dolorosa.
Forse, lui avrebbe dovuto ringraziare loro: non solo perché lavoravano tredici ore al giorno e facevano ricco lui, ma anche perché loro custodivano e curavano e celebravano il dono immenso eterno della grande terra portatrice di frutti. Questo pensava, assorto, quasi stranito, osservando la terra che rifletteva la luminosità del sole così intensa e piena che pareva essa fare luce.
(Quello stesso giorno, dieci ore più tardi, il conte Leopoldo Pellegrinetti era a letto con la cantante Aurora Frou Frou, che era la prima attrazione del Gran Café de Paris di Bologna, e le promise che con il ricavato della vendita del podere Spadone le avrebbe regalato l'appartamentino in Via Saragozza).




I libri di Paolo Cortesi






19 gennaio 2019

Riunione di Lavoro: Un Racconto di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html

Domani, in Italia...


Il direttore aveva deposto sulla grande scrivania alcuni fogli; su ciascuno erano scritte solo poche parole, e i fogli sembravano bianchi; sul lustro del legno erano come fazzoletti ben stirati e la luce che veniva dall'ampia finestra, a lato, li faceva brillare. 
Il direttore si chiamava Apollonio Malozzi Canicchi Tincalli Gravasio; negli anni, la funzione aveva trasformato il suo corpo in una forma umana veramente dirigenziale: era corpaccioso e liscio, polposo, curatissimo, lento, basilicale, lo sguardo che si posava appena sulle cose, e ancor meno sulle persone, sguardo bizantino, geroglifico, aulico, cesareo; le basette geometriche intatte. Attraversati dal fiotto di luce che veniva dalla grande vetrata, i peli delle orecchie apparivano fili sottilissimi trasparenti, fili d'oro, come scintillii che apparivano e sparivano seguendo i moti, misuratissimi, del capo.
Il direttore teneva moltissimo ai quattro cognomi (due dei quali attribuiti da se stesso) e non rispondeva a lettere, mail o telefonate che non gli fossero rivolte appellandolo con tutti i quattro cognomi, i due veri e i due che gli erano piaciuti in un vecchio annuario della nobiltà italiana.
Ora, Apollonio guardava i fogli posati sull'enorme scrivania a cui sedeva; guardava un po' meno i cinque segretari che aveva fatto convocare e che stavano in piedi davanti a lui.
I cinque erano i suoi collaboratori. Così li chiamava, disprezzandoli tutti in cuor suo. 
I cinque aspettavano che il direttore (da loro cautamente chiamato lo stronzo, quando c'erano tante garanzie di segretezza ambientale) aspettavano da diversi minuti che il direttore dicesse per quale motivo li aveva fatti chiamare. Ma erano abituati a questa miserabile farsa, e fare aspettare i collaboratori era uno dei modi tramite i quali Apollonio godeva più pienamente del suo stato dirigenziale assoluto.
Apollonio guardava ciascun foglio con cura, quasi che non smettesse di trovarvi nuovi segni e nuove rivelazioni. Ogni tanto, toccava un foglio con la mano. Le dita, tozze e curve, quasi gonfie, terminavano con unghie strette, puntute. Guardò ancora a lungo, in silenzio. Picchiettava un foglio con l'indice a lungo, per tutto il tempo che lo guardava; poi si rivolgeva ad un altro, e iniziava a picchiettare quello, con un ritmo costante, pareva che contasse le battute, pareva che quel picchiare coll'indice ricurvo fosse la parte più importante, in quel momento, del suo lavoro dirigenziale.
I cinque collaboratori non avevano fretta; erano anni che conoscevano questa abitudine dello stronzo e dunque stavano lì come se aspettassero il tram.
E infine, Apollonio con i quattro cognomi aprì la bocca e, sempre picchierellando l'indice malfatto sul foglio candido, parlò:
-Questo...-
disse e poi tacque, come se un affanno, un'oppressione estrema lo soffocasse. 
Nessuno dei collaboratori disse nulla e intanto il direttore batteva il suo dito con il ritmo consueto, invariato.
-Questo potrebbe essere buono.- mormorò come parlando nel sonno, a voce bassissima.
-Sì, infatti.- disse uno dei collaboratori.
Il direttore interruppe il suo picchiare e portò la destra alla fronte; appariva più che assorto: appariva in una meditazione profondissima, quasi dolorosa.
-Però non so, non mi convince...- sussurrava il direttore che si teneva la fronte fra pollice e indice della mano destra -Non so...non...-
All'improvviso si scosse, guizzò come spinto da un coltello alle reni; afferrò i fogli che aveva vigilato e li porse ad un collaboratore, esclamando:
-Legga lei. A voce alta. Sentiamo come suonano.-
Poi, per insegnare qualcosa:
-Anche l'orecchio vuole la sua parte.- disse.
Il collaboratore che si prese i fogli era Emilio. Iniziò a leggere le due parole scritte su un foglio:
-Valorizzazione etica.-
Altro foglio:
-Correzione sociologica.-
Altro foglio:
-Ristabilimento morale.-
Altro foglio:
-Equità radicale.-
Ultimo foglio:
-Assestamento giuridico definitivo.-
Emilio aveva finito. Non sapeva se tenere ancora i fogli o ridarli al direttore, ma lo stronzo non dava alcuna indicazione in merito: se ne stava a labbra chiuse e occhi stretti. Fuori la luce del sole era piena e chiara e tutto quello che si vedeva dalla finestra era grandissimo e fitto di vita e di calore. Molte cose si muovevano: persone, automobili, cani, biciclette, una bandiera. 
-Non so.- prese a dire il direttore -Valorizzazione etica mi sembra... mi sembrava buono... ha segno positivo, perché il termine valorizzazione dà l'idea di una azione...un'azione benefica, che valorizza, che dà il giusto valore... così la gente apprezza, capisce che è una cosa utile, buona...-
-Da quando si chiamano termovalorizzatori gli inceneritori fanno meno paura.- commentò sorridendo il collaboratore Oreste, che il direttore ignorò.
-Però- continuò lo stronzo -questo termine non piace alla chiesa. Sua eccellenza il signor ministro me lo ha fatto capire chiaramente. È troppo forte, per la chiesa. Non si può.-
-Ma la chiesa ha dato il via libera, quindi...- fece il collaboratore Corrado.
-Sì sì. Però certe sfumature, certi dettagli, come dire?, certi particolari, capito?, certi dettagli certe sfumature sono importanti... su questo non si scappa. Bisogna stare attenti a questi dettagli che sono essenziali. Dico essenziali.- disse gravemente il direttore, come trasumanato dalla sua stessa potenza.
Il collaboratore Emilio restituì i fogli al direttore, dicendo:
-Ristabilimento morale mi sembra possa andare bene.-
Apollonio dai quattro cognomi guardò con una nuova tenerezza i fogli planati sulla scrivania.
-Sì, forse... non so...- sussurrava -magari è un po' duro... troppo laico... non so...-
Tutti tacquero: Apollonio sfinito per la gravezza del lavoro che doveva svolgere (cioè scegliere il termine chiave per la stesura della legge Morani); i collaboratori esausti per questa impudica perdita di tempo.
-Io eliminerei senz'altro "correzione sociologica"; mi sembra cupo e anche improprio.- disse il collaboratore Michele.
-Eh, cupo...- sbottò il direttore - In fondo, sempre di pena di morte si tratta.-
-Sì; però quella parola correzione fa subito venire in mente i compiti, i brutti voti, le interrogazioni, la scuola.... alla gente non andrà giù...-
Il direttore Apollonio annuì:
-Vero. Questo non va bene.- e appallottolò con forza eccessiva il foglio che recava la scritta sciagurata. Lo lasciò cadere in terra.
-Anche equità radicale può creare confusione...non fa venire in mente le tasse?- domandò il collaboratore Corrado.
Apollonio chinò un po' la testa e strinse le labbra (pareva volesse buttare un bacio alla scrivania); picchiò ancora ritmicamente il dito curvo ad uncino su un foglio.
-Assestamento giuridico definitivo.- disse infine col tono della dichiarazione -E' il termine più adatto, il più corretto. Questo va bene.-
I collaboratori non dissero nulla, tanto al direttore non interessava niente che venisse da loro. 
Apollonio il direttore Apollonio era fiero di sé. Anche questa volta era stato il migliore.
-Assestamento giuridico definitivo.- disse ancora il direttore, questa volta un po' più lentamente, per fare scorrere le parole davanti agli occhi e a lasciarle misteriosamente fluttuare in aria, davanti a sé, brillanti e leggere nella grande luce che prorompeva dalla finestra tersa.




11 gennaio 2019

Invito alla lettura: "Verso la Foce" di Gianni Celati



Il libro di Celati è fatto di quattro diari di viaggio. La raccolta è in tre
tranche: maggio 1983 (divisa in due diari), maggio 1984, maggio 1986. Sono pubblicati dall'ultimo al primo. Il viaggio è un lento andare che documenta ciò che si lascia dietro. Si tratta di un camminamento nella Pianura Padana che si trasforma, nel diario dell’83, in un viaggio “sapienziale” alle foci del Po. Il percorso è disorganizzato. È intessuto di quotidiano e non vi sono immagini degne di nota. È un viaggio di recupero di una visione normale, sulle cose e sul mondo. Si diffida, nel diario, delle cose straordinarie, fuori dall’ordinarietà che è lecito che ancora appartenga ad un luogo.

Il libro di Celati è anche il resoconto di un frammento di territorio e di umanità della pianura Padana. Su di essa grava il presentimento di stare per essere spazzata via, così com'è, forse da un evento di portata storica e inesorabile. Quale sia l’evento, se climatico, ambientale, economico, sociale, antropologico, se ci sia stato, si sa e non si sa. Questo non viene detto, ma aleggia una malinconia che vi allude possibilmente. La prima sezione del libro (Un paesaggio con centrale nucleare) è del 1989: lo scoppio della centrale di Černobyl. Lo scrittore fa un’inchiesta, seria nelle intenzioni ma a tratti estemporanea, chiede alle persone che incontra quanto ne pensano riguardo all’esposizione del Nord Italia alle radiazioni, registra le paure di un paese alla frase d’una barista: “Guarda che se non fa il bravo le dò latte contaminato, eh?”.

Questo sentimento di un mutamento che stravolge il volto della Pianura Padana non si esime da un resoconto particolareggiato di ciò che sembra destinato a svanire. Con occhio zelante, quando anche disattento, penetrante ma da lontano, Celati spiega la natura di quelle zone e chi le abita. Grossi stabilimenti industriali, un benzinaio grasso in ciabatte che si volta dall’altra parte mentre riempie serbatoi di benzina.
I luoghi descritti si trovano spesso nel punto di tensione fra un’offerta sentimentale del loro paesaggio naturale e lo squallore di elementi inquinanti che li hanno turbati. È l’inquinamento dei rifiuti delle industrie. Ma è anche una mutazione antropologica: i negozi dalle luccicanti vetrine delle grandi città sono riprodotti uguali nei cuori mutati dei piccoli borghi. Lo scrittore prende nota, cammina oltre, per “raggiungere una foce dove tutte le apparizioni si eclissano ridiventando detriti”.
Celati ricompone un’immagine cara al Novecento letterario: i detriti. Ma ricerca i relitti della realtà da un luogo metaforico ad un paesaggio ambientale: le foci del Po.
Questo diario è anche, se mi si passa l’espressione, un pamphlet di sapore profetico sulla fine del mondo. Si veda la quarta sezione (Verso la foce): quando il protagonista si trova a Scardovari, un paese nei pressi del Po di Gnocca, sta giocando ad un flipper in un bar semivuoto. Il gioco del flipper si basa sulla missione di due astronauti, Voltan e Vanda. Nel flipper, i due astronauti si devono allontanare dall’Empire State Building e dalla Statua della Libertà di New York per arrivare all’astronave che li salverà. Da che cosa? Dalla fine del mondo.
Celati non sale sull’astronave, né vuole farlo. Forse non può, e la navicella potrà prelevare le persone di una generazione successiva alla sua. Celati, col suo libro, si è fermato a fissare i resti del mondo, prima di una fine che non conosce.

Lo stile è quello di un libro fatto sorgere sulle frasi spezzate dagli appunti presi su un taccuino durante il viaggio. Talvolta, scritti mentre camminava, per cogliere l’essenza normale, diretta delle cose che vedeva. Oppure, lo scrittore è abile a fare risalire lungo questo filo, quello di una composizione immediata. Celati fa una prosa descrittiva, dura e senza sbavature, ma nutrita di lontananze e riflessioni su sé stessa. È asciutta, anche quando è tenuemente paesaggistica; quando è apocalittica, assegna alle parole un peso specifico.

Il personaggio Celati è solo un occhio che osserva. Questa è la visione copernicana in cui anche un altro scrittore, che sembra opposto a lui, ha impegnato la sua opera: Italo Calvino. Ma ogni occhio rimanda linee che attraversano spazi diversi, assegna vettori portatori di significati distinti.
Lo scrittore si abbandona agli spazi, ma si dà l’imperativo di evocarli a parole. Non sta pensando di descriverli: perché “anche le parole sono richiami, non definiscono niente, chiamano qualcosa perché resti con noi. E quello che possiamo fare è chiamare le cose, invocarle perché vengano a noi con i loro racconti”. È una singolare sconfessione della forza cognitiva della scrittura, pronunciata da un professore universitario di Lettere.

Celati, con la parola, richiama un mondo. Il mondo resta fisso, ma, ugualmente, sfugge dalle mani e svanisce. Celati diviene un personaggio inconsistente del suo libro. Teme di perdere la sua identità, ha dubbi, è attaccato morbosamente a qualcosa che fugge, gli importa di carpire qualcosa che accade fuori di lui, in un luogo che, perché non cambia, è a rischio. Celati è un fantasma che cammina su una terra che scompare se la nomina.
Nell’ultima sezione del libro, si annota la presenza di un ponte di ferro. Celati è a destinazione del viaggio: zona di Porto Tolle, all’imboccatura del Po di Gnocca. I piloni del ponte sono immersi nell’acqua alta del fiume. Attorno ad essi, la corrente fa gorghi d’acqua. Fuori da essi, una lattina è rigettata a dai cerchi dei mulinelli, li insegue mentre si spostano, e si rigetta nel loro occhio. Poi ricomincia.
Il libro di Celati – l’occhio di Celati - è fra l’osservazione emozionale dei mulinelli d’acqua e la focalizzazione della lattina inquinante, inquietante che rigettano.

Alessia Borriello