02 aprile 2019

IL PIÙ PESANTE LAVORO




Se qualcuno ci domandasse: “Qual è il lavoro più pesante?”, come risponderemmo? Alcuni potrebbero dire: il muratore, poiché ogni giorno si trova a fare tanti sforzi fisici, a rispettare determinati orari, a stare sotto il sole e, se ce n’è di bisogno anche sotto la pioggia. Oppure il contadino, anch’egli costretto a lavorare all’aria aperta sia d’estate (a volte con temperature asfissianti) che di inverno con temperature anche sotto lo zero. O invece il barista, il cuoco, per i quali non esiste sabato sera, non esiste il riposo della domenica e nei giorni festivi lavorano ancor di più. C’è chi sostiene invece che tra i lavori più pesanti vi sono quelli che necessitano di una enorme quantità di concentrazione: ad esempio un medico, un pilota di aerei, un capo azienda, ecc… Ogni lavoro può essere considerato pesante poiché porta con sé tanta responsabilità e necessita di tanta pazienza …

Ma a mio avviso, credo che tra i lavori più pesanti ve ne sia uno più particolare e di diversa natura, un lavoro che ci troviamo a svolgere tutti i giorni, il quale anch’esso prevede una certa pazienza di cui parlavamo poc’anzi; ed è quello di accettare l’altro così com’è, senza pretendere di essere diverso da come si presenta e, cosa ancor più “pesante”, cercarvi di entrare in empatia, poiché possiamo sempre essere liberi di scegliere se svolgere un lavoro oppure (quando questo lavoro ci sta stretto) cambiare mestiere, (sempre ovviamente se possiamo permettercelo). Ma quando qualcuno ci fa arrabbiare, quando qualcuno ci sta antipatico (anche solamente a pelle), quando non riusciamo a fidarci di questo qualcuno, beh, questo è un macigno che ci porteremo sempre dietro. Poiché possiamo scegliere le persone con cui stare, ma tutto ciò può benissimo accadere con chiunque, anche con persone diverse oppure con le stesse persone che da sempre amiamo, stimiamo, ecc … e tutto ciò spesso accade per una mancanza di comunicazione (le famose incomprensioni ad esempio).

Ma a volte non è sempre così, molto spesso accade che siamo in grado di accettare l’altro, di accogliere l’altro, ma una volta accolto cosa succede? Spesso accade purtroppo, che il nostro volere è che costui debba agire secondo i nostri piani, debba comportarsi come piace a noi, senza pensare minimamente se è felice nel fare determinate cose o meno.
Accogliendo qualcuno infatti, non solo si corre il rischio di volerlo bene, ma si corre un altro rischio purtroppo: quello di fargli (involontariamente) del male, poiché a volte l’amore per il prossimo è fatto anche di scelte solo nostre, poiché crediamo siano le scelte giuste per entrambi e, a questo punto, viene da chiedersi: ma gli altri sono veramente felici delle scelte che facciamo anche per loro, oppure anch’essi hanno il diritto di poter scegliere?

Dunque, più della stanchezza fisica, più della stanchezza mentale, un duro lavoro esige anche di un’altra tipologia di stanchezza: quella del proprio Sé, del proprio agire, del sapersi controllare, poiché come afferma Marianne Williamson: “Nulla ci rende ciechi tranne i nostri pensieri; nulla ci limita tranne le nostre paure e nulla ci controlla tranne le nostre convinzioni.”

Dunque, qual è il più pesante lavoro?

Giovanna Modesto




29 marzo 2019




Mentre riguardo sul blog di don Pino Carà “ Amici d’infanzia alla Cava”, penso agli altri momenti che hanno segnato intimamente questa mia immersione totale nel “grembo della madre”. Immancabile fu la visita, là dove riposano per sempre, alle persone care che ci avevano dato la vita, l’esempio e spianata la strada per il nostro cammino. Lo facemmo assieme con Filippo Viola, Saro e il nipote Franco nella mattinata fredda e piovosa di quel venerdì 13 aprile. La sera prima avevo salutato zia Maria Giordano e il cugino Franco, in partenza per Roma, che mi avevano aspettato per darmi le chiavi della loro casa a cui però avevo rinunciato. Con Saro Siciliano, vicini per problemi organizzativo-logistici e disponibilità di tempo, decisi a non mancare all’appuntamento, eravamo riusciti a ritagliarci sei giorni tutti per noi. Casa Siciliano ci avrebbe ospitati per quella settimana. In certi periodi della nostra giovinezza c’erano stati, tra Saro e me, momenti che “nni spartiva sulu lu sunnu di la notti,”ci divideva solo il sonno della notte; questa volta neanche quello. Ma la circostanza era segnata da un elemento di tristezza: più volte don Pino mi aveva invitato a casa sua e adesso che avevo accettato l’invito, don Pino non c’era più. Tutto però parlava di lui in quella casa, dai libri sulla scrivania e sugli scaffali, ai quadri alle pareti, al ritratto di Giovanni Paolo II in una cornice dorata, ad ogni cosa che toccavamo e usavamo: la sua caffettiera , le sue tazze, le sue posate, le sedie su cui ci sedevamo e il tavolo a cui ci accostavamo per fare colazione. Di lui ci parlavano anche i due ex ragazzi della parrocchia, Pino Carà e Giovanni Serio (che dovevo scoprire essere stato mio alunno, inizi anni ’60, durante una supplenza) che vennero a trovarci con le loro famiglie e che ci invitarono a pranzo. Spesso Saro, suo “fratello gemello” (così li chiamavano), prendeva in mano gli album (ce n’erano una decina) delle fotografie, dei fratelli , dei nipoti, delle gite parrocchiali… , che don Pino aveva con pazienza ordinato, e me le mostrava: ”questa è quando è venuto a Santena l’anno del cinquantesimo di sacerdozio…”; “ qui è quando è venuto in Italia nostro cugino dall’America…”..” Questa casa - aggiungeva - sarebbe stato desiderio di mio fratello restaurarla e metterla a disposizione dei nipoti tutti per quando avessero voluto venire a trascorrere qualche giorno al paese dei loro avi…, mi piacerebbe realizzare quel sogno”. Don Pino ricorreva continuamente nei nostri discorsi; era come se fosse con noi.
All’aeroporto di Catania, ci accolse Franco Siciliano, Ciccino, col sorriso che ha conservato sin da quando bambino raggiungeva il suo papà, da casa sua di fronte, al Circolo di cultura “V. Guarnaccia”, e ci salutava. Amico per disposizione d’animo (da tutti conosciuto, non ci sono persone in paese che egli non conosca a sua volta), Franco, benché fosse ancora lontano da li tri bbintini e ddeci, che quasi tutti della comitiva abbiamo superato, fece parte del gruppo degli “amici di sempre” - “amici per sempre” e per tutto il periodo del soggiorno fu il nostro angelo custode: ci lasciavamo la sera per ritrovarci il mattino quando lui arrivava in Via Nazario Sauro, dalla sua casa di Piazza V.E., e noi l’aspettavamo per il caffè. In tre ci muovevamo come un corpo solo e lui ne era il motore, non solo metaforicamente: sicuro e prudente nella guida, sempre pronto e premuroso, con la sua Opel stagionata risolvette ogni esigenza di spostamento dentro e fuori Pietraperzia.
Fin dalla sera del nostro arrivo al paese fummo ospiti a cena  della famiglia di Lillo e Giannina Maddalena. L’invito si estese ai giorni successivi e tutto avvenne all’insegna della più autentica sicilianità. Benché non avessimo avuto tante occasioni di frequentazione fui accolto nella loro casa e alla loro tavola come uno della famiglia e la loro ospitalità fu così immediata e serena che io mi sentii leggero, e senza disagio od imbarazzo, accettai le loro premure, come fossi a casa di fratelli. Alla gentilezza e finezza di modi la signora unisce grande perizia culinaria e furono primizie genuine e piatti tipici, preparati con gusto, quelli che ci offriva ogni giorno diversi: oltre ai tradizionali primi piatti, Pasta ccu li finucchjiddi rizzi e la muddica, anellini ccu la ricotta frisca, frittate di mazzareddi …, tutto quello che la cucina nostrana ha di meglio e di particolare, fino alla mousse di ficodindia, una specialità. Ascoltare Lillo che ci parlava con pacatezza e chiarezza era come ascoltare i discorsi di lu zi’ Peppi Maddalena, tanto il suo tono di voce e il ritmo richiamano la parlata di suo padre. Lillo, mentre ci riempiva i calici di Nero d’Avola, vantava la qualità del pane siciliano, pane di semola fatto di farina di grano duro e , ad una nostra richiesta circa il pane integrale oggi molto diffuso ci spiegava, da esperto, che dai filtri di diversa gradazione usati nella molitura del grano si ottiene la farina per il pane integrale e non dalla mescolanza di farine con crusca come è, spesso, quello in commercio. Di fronte alla coppia così affiatata, spontanea mi veniva in mente quella pillola di saggezza degli antichi “Nuddu si piglia si nun s’assumiglia.
I momenti in cui mi allontanai dal gruppo fu per rispondere ad altre esigenze affettive che mi chiamavano. Parenti stretti, altri amici, i miei figliocci. La dolcezza e l’amabilità di quegli incontri conservo nel mio petto. Una capatina in solitaria, non potei esimermi dal fare in via 4 novembre, (ma la curiosità mi spinse anche nelle adiacenti “vie dell’infanzia”) che attraversai per tutta la sua lunghezza dalla via La Masa all’incrocio con la discesa Rosolino Pilo; unico e solo passante con i miei pensieri le attraversai quel pomeriggio. Fu grazie a Biagio Messina (da quando ci siamo ritrovati, nel 2005, considero Biagio e la sua sposa Filippina miei figli adottivi e mia nipotina la piccola Sara), che riuscii, dopo il pranzo di San Vincenzo, ad andare a trovare, ad Enna, don Filippo Marotta, nella sua Parrocchia di San Tommaso Apostolo, che ancora non conoscevo. Lo ringrazio pubblicamente per l’interessante “Antologia delle tradizioni popolari, degli usi e dei costumi, delle espressioni dialettali e degli autori di opere in vernacolo di Pietraperzia” che ci ha regalato.
La mattina di martedì 17 aprile, pronti per ripartire, mentre Franco al furgoncino di un ortolano che sostava all’incrocio di via Stefano Di Blasi con via Sabotino, stava comprando mazzareddi e cicoria di campagna da portare alla sua mamma a Catania, avemmo la fortunata occasione di salutare ancora una volta i coniugi Maddalena che tornavano già dalla campagna e Peppino Rabita che invece vi si stava recando. All'aeroporto di Catania, l’aereo della Wind-jet che da Torino ci aveva fatto partire dopo due ore e più dall’ora prevista, questa volta fu puntualissimo. Un ritardo analogo sarebbe stato oltremodo gradito.




Ritorno nel grembo materno

(dedicata ai coniugi Giannina e Lillo Maddalena

Maestoso
si erge Mongibello
e spande sulla piana riflessi azzurrini.
Balsamo al mio cuore
attorno si diffonde
l’aroma di zagara e di eucalipto
di questa terra di miti.
Mi accoglie
con l’abbraccio di vecchia nutrice
la puntara di li Minniti;
vigile mi sorride la rocca di Petra.

Le strade che percorro
ancora conservano impronte.
che non ignoro,
facile si aprono un varco
e prendono corpo
echi di ricordi lontani.
Rivivono atmosfere passate
nelle oneste premure degli ospiti
e in queste nostrane primizie
con cui fanno tutt’uno:
frutto di avita cultura.





22 marzo 2019

Malato: Un Racconto di Paolo Cortesi





per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html


Mario non scorderà mai per tutta la vita la faccia che aveva il medico quando gli disse che suo figlio aveva la tubercolosi.
Il medico aveva la finestra alla spalle; il sole era basso sull’orizzonte; i rami di un grande albero erano neri contro la luminosità larga e forte della palla di fuoco fermo. La luce attraversava le orecchie del medico, che apparivano perciò rosse, traslucide, come spellate e venate di lampi di sangue.
Tutta la testa del medico era scura, come i rami dell’albero là fuori.
C’era quella testa nera, con un ciuffo di capelli storti; le orecchie rosse e opalescenti: il malato sembrava il medico, non Attilio.
E invece il ragazzino era a letto, sotto le coperte che la madre gli tirava fin sopra il mento. Coprirlo bene, e tenerlo ben coperto, era la sola cosa che lei poteva fare per credere di essere utile al figlio; così gli stava seduta accanto al letto; teneva le mani posate sul grembo e le muoveva – subito – appena Attilio scostava un po’ il lembo della stoffa che lo avvolgeva.
Il medico scrisse la ricetta, che posò sul tavolo. Disse che ci voleva aria sana e tanto sole, aria asciutta. La montagna, ci voleva. Montagne alte e al sole.
Attilio (che fissava medico e genitori come figure sconosciute che non avrebbe mai più incontrato) Attilio pensò che sarebbe andato in montagna e fu contento, ma segretamente.
Mario accompagnò il medico alla porta. Tornò indietro presto, perché la stanza era una sola e la porta era quasi davanti al letto.
Mario guardò la moglie Elvira, non era nemmeno triste perché le notizie brutte, anche le più brutte, non ti schiantano quando le aspetti da tanto, ma ti seppelliscono vivo solo un po’ di più, e che differenza fa stare sotto tre metri di terra invece che due?
Che differenza fa?
Mario guardava la moglie: lui e lei apparivano stanchissimi. Attilio temeva che si arrabbiassero con lui, perché era malato e sapeva – lo sapeva da anni – che le medicine costano, e se il medico Frisoli era buono e non si faceva pagare, invece la cura in montagna sarebbe stata troppo costosa.
Restarono tutti e tre zitti per diversi minuti, finché Attilio non decise di dare un colpo di tosse.
Allora il padre si alzò dalla sedia; sembrò scavarsi una nicchia nell’aria diventata all’improvviso, misteriosamente, grossa e pesante. Disse alla moglie:
-Allora io vado.-
Era come un segnale, come l’inizio di una cosa preparata da tempo. Attilio ebbe un po’ paura; temeva che andasse a prendere dalla zia la siringa, per fargli fare le iniezioni.
Ma il tempo passava e il padre non tornò. Attilio si addormentò, perché nel letto faceva caldo; stava disteso e immobile.
Quando si svegliò, vide il babbo seduto dove stava prima di uscire; ora leggeva a sua moglie un pezzo di carta; era una lettera, su un foglio bianchissimo, con le pieghe ben dritte. Mario lo teneva in mano con delicatezza e quasi con timore, come si fa con oggetti fragilissimi.
Leggeva a voce bassa, per non svegliarlo, ma ora Attilio ascoltava:
…che come un buon padre tanto ha a cuore la salute della fresca giovinezza d’Italia. Duce, a voi ricorrono con illimitata speranza due poveri ma onesti genitori, che non possono permettersi le costose cure per ridare la salute al loro amato figlioletto. Un vostro cenno, Duce, e la benefica volontà vostra dispiegherà gli effetti della…
Attilio ascoltava con attenzione perché era un po’ preoccupato. Non aveva mai sentito suo babbo parlare così, né lo aveva nemmeno sentito leggere, e non capiva il significato di quelle parole, che erano belle, suonavano bene, molto diverse e importanti; erano parole – si sentiva – scelte bene e messe assieme molto bene. Sembrava di sentire il prete quando faceva la predica, ma erano parole più strane, anche un po’ più importanti, almeno così pareva.
Mario vide che il figlio si era svegliato. Lo guardò un istante e lesse a voce appena un poco più alta:
…i sottoscritti genitori osano sperare che la bontà vostra…
La mamma volse la testa verso Attilio; gli sorrise. Sembrava sempre sfinita, come immobilizzata da un peso troppo grande.
Mario concluse la lettura. Posò la lettera sul tavolo con ogni riguardo; la moglie prima si sfregò le mani sul grembiule, controllò che fossero pulite poi prese il foglio con una delicatezza di cui Attilio fu quasi geloso.
Stava leggendo; lo si vedeva dal movimento delle pupille che andavano e venivano.
Poi disse:
-Scrive bene. Scrive proprio bene il figlio della Velia.-
Mario annuì.
-Mi voleva dare anche la busta e il francobollo, ma io ho detto di no. Sembrava che ci approfittassimo.-
-Hai fatto bene.-
-Adesso vado a prendere la busta col francobollo.-
Si alzò e mise la mano in tasca. Contò il denaro. Erano monete nere, consunte, lustre.
Mario guardò il figlio e gli fece un gesto con la mano, lo salutava.
Attilio tirò fuori la mano dalle coperte e salutò il padre.