02 giugno 2019

1943-1945 Una Ricerca. La Guerra di Liberazione: Alle origini della Repubblica. Il contributo dei Siciliani.





Quell’estate del 1943 i lavori agricoli furono portati a termine come consentì la situazione. Lasciati i rifugi dove avevano trascorso il periodo della guerra, i pietrini sfollati poterono fare ritorno alle loro case. La vita riprendeva il suo corso.
In paese l’atmosfera non era lieta; la guerra era durata poco e aveva provocato modesti disastri ma tante preoccupazioni occupavano il cuore della gente. La liberazione aveva riguardato soltanto parte del sud d’Italia; nel resto della penisola gli Alleati stentavano a sfondare le forze tedesche attestate lungo linee difensive fortificate dal Tirreno all’Adriatico e ad avanzare verso nord. Contingenti militari italiani erano presenti nei vari teatri di guerra, in Iugoslavia, in Albania, in Grecia, in Russia. Le famiglie che avevano congiunti ai vari fronti, non avevano cessato di temere per la sorte dei loro cari. Ma altri eventi politici e militari erano intervenuti in quel periodo a rendere più complicata e difficile la situazione in Italia.

L’armistizio separato.


Nel luglio del ’43,[1] con le forze anglo-americane già in Sicilia, destituito e arrestato il suo capo, Benito Mussolini, l’esperienza del governo fascista, iniziata il 31 ottobre 1922, è finita. Il nuovo esecutivo, presieduto dal generale. Badoglio, concluso separatamente l’armistizio con gli Alleati, ne dà l’annuncio l’8 settembre. Re e Governo in tutta fretta abbandonano Roma e si trasferiscono a Brindisi.
Intanto la guerra continua ma i termini poco chiari del proclama non fatto seguire da precise indicazioni operative (…”ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare”…”le forze italiane reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza ) creano grande disorientamento nelle forze armate italiane, a tutti i livelli, con disastrose conseguenze. I tedeschi, all’annuncio dell’armistizio che considerano tradimento, da nostri alleati (l’Italia era entrata in guerra a loro fianco il 10 giugno 1940) sono diventati forze di occupazione. I generali italiani non sanno cosa fare né quali ordini impartire alle loro unità di fronte alla scelta drammatica se arrendersi ai tedeschi, combattere al loro fianco o contro di essi. Si verificano casi di suicidio da parte di alti ufficiali per non subire l’onta della cattura e della prigionia; episodi di interi reparti che reagiscono con le armi alle condizioni dei tedeschi e cadono in combattimento, (è il caso della Divisione Acqui a Cefalonia) o, se superstiti, vengono barbaramente trucidati[2]. L’esercito italiano è in gran parte formato da contadini del meridione; il primo impulso è quello di tornare a casa e comunque di pensare alla sopravvivenza[3]. Sono i luoghi e le particolari circostanze in cui ciascuno si trova che determinano le scelte individuali e di gruppo. Di quelli che tentano la via del ritorno a casa, molti sono catturati e fucilati o deportati, come successe ai nostri concittadini:


Liborio Meglio, finito nel campo di sterminio di Flossenburg "Lager Friedhof" (Germania) sepolto a Flossenburg (06/09/1912 – 01/05/1944).
Dati tratti dal sito del Ministero della difesa.

Bonfirraro Benedetto, sepolto ad Amburgo (Germania), cimitero militare italiano d’onore (27/11/1922 – 21/03/1945).
Dati tratti dal sito “Dimenticati di Stato”.

Carà Michele sepolto a Francoforte sul meno (Germania), cimitero militare italiano d’onore (14/07/1910 – 24/07/1944).
Dati tratti dal sito “Dimenticati di Stato”.

Puzzo Alessandro, sepolto a Francoforte sul meno (Germania), cimitero militare italiano d’onore (11/05/1908 – 20/03/1945).
Dati tratti dal sito “Dimenticati di Stato”.

Cimitero militare italiano d'onore di Francoforte sul Meno
fonte "Dimenticati di Stato" di Roberto Zamboni
Alcuni riescono, sfuggendo fortunosamente ai rischi della cattura, tra mille difficoltà e dopo molti giorni di cammino: nascondendosi di giorno e camminando di notte, sempre lungo le vie meno frequentate, dormendo, quando possibile, nei casolari ferroviari, nutrendosi di frutta e di quello che offriva la campagna e qualche famiglia di buon cuore. Tale fu l’esperienza di un nostro parente, che, partito il 13 settembre assieme ad altri commilitoni, da Gorizia, dove prestava servizio, giunse a Pietraperzia dopo 23 giorni di viaggio. Intercettati una sola volta, ormai nei pressi di Salerno, da carabinieri italiani e portati al comando inglese, furono trattenuti per due giorni ed impiegati in lavori di scarico viveri da una nave. Fu l’occasione per potersi rifocillare, fare rifornimento di scatole di sardine e di carne. Lasciati inoperosi e senza alcun controllo, ripresero il loro cammino[4]. Altri, invece, isolati di reparti allo sbando, trovano rifugio presso famiglie del luogo con le quali avevano instaurato buoni rapporti, si accasano e lì superano, senza conseguenze, il periodo della guerra civile, e vi rimangono per il resto della loro vita.

I tedeschi, padroni del campo, subito dopo l’armistizio hanno liberato Mussolini prigioniero al Gran Sasso, il quale, con l’intento di far rivivere un nuovo stato fascista, con la parte dell’esercito a lui rimasta fedele e le strutture amministrative del precedente regime, costituisce la Repubblica Sociale Italiana (RSI), di fatto sottomessa al volere dei nazisti. Con il sostegno degli stessi il nuovo governo fascista domina con spietatezza sulle regioni del centro-nord, imponendo alle popolazioni di aderire alla R.S.I. con l’obbligo del servizio di leva pena la condanna a morte per i renitenti.
Dal settembre 1943 al 1945 il nostro Paese, quindi, rimane diviso in due: Regno del Sud corrispondente al territorio liberato dagli Anglo-americani (sede Brindisi e successivamente Salerno) e Repubblica Sociale Italiana R.S.I.(o di Salò dal nome della cittadina in provincia di Brescia, sede del governo fascista).

La lotta armata


Di fronte alla drammaticità del momento tanti ufficiali contrari alla nuova dittatura non indugiano ad abbandonare le caserme: seguiti da molti militari dei loro reparti convinti anch’essi della necessità di una scelta perentoria (il ritorno a casa si presenta estremamente rischioso) prendono la via della montagna e danno vita alla Resistenza armata contro gli oppressori. Alle lotta partigiana che si sviluppa in tutte le zone occupate dai nazifascisti si uniscono i giovani renitenti alla leva, cittadini, uomini e donne di ogni condizione e di ogni orientamento politico: studenti, intellettuali, contadini, operai, sacerdoti che rifiutano di sottomettersi al regime della RSI. Migliaia di persone che via via aumentano di numero. Con il coordinamento politico militare del CNL (Comitato di Liberazione Nazionale) costituito dai partiti democratici, la lotta contro le forze preponderanti del nemico viene condotta con azioni di guerriglia per piccoli gruppi. Le loro armi sono quelle sottratte alle caserme dai soldati prima di lasciarle; altre armi, munizioni, viveri vestiario, fanno giungere ai partigiani le forze alleate con lanci dall’alto. Così, per circa due anni, una feroce e sanguinosa guerra imperversò nel centro-nord d’Italia, una vera e propria guerra civile che coinvolse popolazioni delle campagne e delle città fatte oggetto di efferati eccidi, da parte delle formazioni naziste e nazifasciste (un elenco lunghissimo, tra i più disumani quelli delle Fosse Ardeatine (Roma), di Boves (CN)- Marzabotto (BO) Sant’Anna di Stazzema (LU). Nulla di tutto ciò appresi durante la frequenza delle scuole media e magistrale, forse nessuno sapeva cosa fosse realmente accaduto. Certamente nulla si seppe sino alla liberazione dei deportati da parte delle armate russe, dei campi di sterminio predisposti in segretezza dai nazisti per la sistematica eliminazione degli ebrei: Auschwitz, Birkenau, Buchenwald, Mauthausen sono nomi che mettono i brividi, in essi perirono, assieme ad internati di diverse etnie e condizioni, circa sei milioni di ebrei. Primo Levi ce lo ricorda soprattutto nel suo “Se questo è un uomo”.

Il contributo dei siciliani.


Ma riguardo alla Resistenza la delimitazione nord/sud fu solo geografica. È senza fondamento la convinzione che la lotta per la liberazione dell’Italia dalla dittatura nazifascista sia stata “faccenda”esclusiva della dell’Italia del centro-nord. Certamente lo fu, come si è detto, per le popolazioni delle regioni interessate. Alla resistenza armata parteciparono, con contributo di sacrifici e di sangue, uomini e donne provenienti da tute la parti d’Italia. Perché, se “prevalevano le divise”, nelle formazioni partigiane “si parlavano tutti i dialetti”[5]. Non esistono dati certi circa il numero di meridionali che scelsero di combattere per la libertà dell’Italia. Una stima parziale, fatta dall’Istituto di Storia della Resistenza di Torino (ISTORETO) relativa alle squadre partigiane che operarono nelle province di Torino e Cuneo, ridimensiona al 20%, la precedente valutazione dello storico A. Monti che sosteneva aggirarsi intorno al 40% la presenza di meridionali in quelle formazioni[6]. Per quanto riguarda, in particolare, il contributo dato dai siciliani, in un articolo sul quotidiano “la Repubblica” del 25 /4/2008, si parla di 2.600 partigiani siciliani, riconosciuti dall’Istoreto, che operarono in Piemonte; a parte le province di Biella Novara e Vercelli che dipendevano dal comando di Milano[7]. Ad integrazione di tale dato, portandolo a 2727 unità, l’articolo di Mauro Begozzi, pubblicato sulla Rivista “Nuova Resistenza”, riporta i nominativi di 127 combattenti siciliani presenti nelle formazioni partigiane del novarese e del VCO (Verbano Cusio Ossola, i paesi intorno al lago Maggiore ) tra cui 18 caduti e 3 deportati in Germania[8].
Non sono solo militari ma anche operai, impiegati, ferrovieri, studenti, carabinieri siciliani, giovani e meno giovani, provenienti da tutte le province dell’isola, in Piemonte per precedenti migrazioni o trasferimenti. Situazioni simili si trovavano anche in altre regioni del nord occupate dai tedeschi. Un esempio molto noto è quello di Concetto Marchesi di Misterbianco (CT), latinista, rettore all’Università di Padova, il quale fu tra i primi ad incitare studenti e professori a lasciare la scuola, dandone l’esempio, e a unirsi ai resistenti per liberare l’Italia dal terrore nazista.
Secondo dati ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani), 211 furono i siciliani che persero la vita in Piemonte, molti dei quali insigniti di medaglia d’oro (26), d’argento ( 85), di bronzo e di croce di guerra. Altri 70 si immolarono nelle altre regioni d’Italia, 5 perirono nel massacro delle Fosse Ardeatine di cui uno insignito di medaglia d’oro, due d’argento[9]
Tra i caduti è indicato il nome di un figlio di Pietraperzia: Filippo Di Blasi (Pirtusiddu), 12-9-1920, caduto in combattimento a Chiusa Pesio (CN) il 24/3/1945. 
http://www.banchedati.istitutoresistenzacuneo.it/broken_lives/28490
Quella di Filippo Di Blasi è una vicenda toccante; sentirla raccontare dal cognato, Vincenzo Guarnaccia (Vicinzu Caniglia), ci ha procurato intensa emozione. Filippo, in servizio a Cuneo, si è fidanzato con una ragazza di Beinette, piccolo comune di quella provincia, dove i genitori di lei, sig.ri Quaranta, possiedono una grossa cascina. Dopo l’8 settembre Filippo viene accolto dai futuri suoceri, tra l’altro figure di spicco della Resistenza alla quale anche lui ha aderito. Della IV Divisione Alpini, Filippo opera con le bande dislocate nelle montagne della Valle Pesio. Le valli del cuneese, culla delle prime formazioni partigiane, sono le zone in cui più frequenti si susseguono i rastrellamenti e più accesi i combattimenti. Spesse volte, tra molti rischi, il nostro giovane partigiano è sceso a Beinette, in quei venti mesi di vita di trincea, rinsaldando il legame con la famiglia Quaranta, e parlato di matrimonio, da celebrare a liberazione avvenuta. Quando però manca circa un mese alla liberazione, in uno di quegli scontri che si fanno più violenti quando la conclusione si avvicina, Filippo rimane ucciso. La notizia colpisce e addolora la ragazza e i suoi familiari; sono loro che si occupano del recupero del corpo e della tumulazione nel cimitero di Beinette. La Cascina Quaranta, a Beinette, ora si trova in Via Filippo Di Blasi: i Quaranta, membri influenti della comunità, hanno voluto che la strada in cui si trova la loro casa fosse intitolata al ragazzo siciliano che si era immolato per la liberazione dell’Italia.
Tra gli esempi più illustri del contributo dato dai siciliani alla liberazione dell’Italia è annoverato, per il ruolo che vi svolse, l’on. Pompeo Colajanni, classe 1906[10]. Il personaggio sarebbe divenuto molto noto a Pietraperzia: fisicamente inconfondibile per i suoi foltissimi baffi neri, più volte, nel dopoguerra, i pietrini udirono la sua voce robusta risuonare nella Piazza Vittorio Emanuele, durante le campagne elettorali. Egli, nel 1943, tenente di complemento presso la Scuola di cavalleria di Pinerolo, fu tra i primi, subito dopo l’8 settembre, ad organizzare, con altri ufficiali, i suoi soldati e civili, la resistenza, fondando a Borgo San Dalmazzo (CN) la banda partigiana “Carlo Pisacane” da cui si svilupparono le brigate “Garibaldi”. Le imprese da lui condotte, come comandante delle brigate garibaldine della zona del Monferrato, con il nome di battaglia di “Barbato”, sono rimaste leggendarie. Per la sua esperienza e competenza militare fu nominato Vice comandante del Comando Militare Regionale Piemontese del Corpo Volontari della Libertà che riuniva i vari raggruppamenti partigiani di diverso orientamento di tutto il Piemonte. Furono le formazioni partigiane guidate da “Barbato” che liberarono Torino il 28 aprile 1945. Il Comune di Cavour (TO) ha voluto ricordare il grande partigiano apponendo sulla facciata del palazzo comunale, in piazza Sforzini, una lapide con questa iscrizione: «Da Cavour (TO) il 10/9/1943 con alla testa il comandante Barbato on. Pompeo Colajanni un gruppo di militari e civili iniziò la guerra di liberazione nella zona per dare al nostro paese pace libertà e democrazia. L’Amministrazione Comunale e i partigiani superstiti posero il 25 /4/1992. » Torino gli ha dedicato una strada. Un cippo in suo onore ha posto al Giardino Inglese di Palermo l’Amministrazione della città:”Pompeo Colajanni, comandante Nicola Barbato (1906-1987) partigiano, contribuì alla liberazione dell’Italia dai nazifascisti e al riscatto della Sicilia”.
Non meno degno di essere ricordato è il Comandante “Petralia”, nome di battaglia di Vincenzo Modica, classe 1919, di Mazara del Vallo. Ufficiale presso la Scuola di cavalleria di Pinerolo, come Pompeo Colajanni, ma di diversa formazione ed esperienza politica, convinto dal più anziano tenente, lo seguì e ne divenne vice e braccio destro. Si rese celebre come comandante della I Divisione Garibaldina. “Petralia”era al fianco di “Barbato” nella liberazione di Torino. A lui, ferito al braccio sinistro, toccò l’onore di portare la bandiera del CVL ( Corpo Volontari della Libertà) nella sfilata dei partigiani vittoriosi del 6 maggio 1945, a Torino.
Altro celebre esempio di partigiano siciliano è quello di Nunzio Di Francesco, Linguaglossa (CT) 03/02/1924 Catania 21/02/2011.
Giovane di formazione cattolica, militare artigliere a Venaria Reale,(TO ) lascerà la caserma dopo l’8 settembre assieme ad altri siciliani, raggiungerà le “Brigate Garibaldi” di “Barbato”dove sarà il partigiano Athos comandante di un Distaccamento. Catturato dai tedeschi il 18/10/1944 e condannato a morte per aver guidato una banda armata contro la Repubblica di Salò, verrà deportato a Bolzano in attesa della esecuzione e successivamente nel campo di sterminio di Mauthausen, non più persona ma numero-115503, dove assisterà alle atrocità commesse dai nazisti, come scriverà nelle sue memorie[11]. Sarà liberato il 05/05/1945. Ritornato in Sicilia la sua adesione di partigiano alle “Brigate Garibaldi” sarà criticata da parte dei suoi amici di prima e di autorità ecclesiastiche, e troverà ostacoli all’ottenimento della pensione di guerra. Sino al termine della sua vita sarà Presidente dell’ANPI della provincia di Catania, ponendosi come testimone dell’impresa partigiana e dei valori della Resistenza da proporre sempre nella formazione dei giovani; a tale scopo abbiamo voluto fare la presente ricerca.

La data del 25 aprile ’45, giorno della liberazione delle città di Milano e di Torino ad opera dei partigiani segna la fine della guerra fratricida e la liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Dovevano passare ancora 14 mesi prima che i prigionieri di guerra potessero tornare alle loro famiglie.. Nel 1946 la data del 25 aprile venne proclamata festa nazionale dal primo governo della Repubblica Italiana presieduto da Alcide De Gasperi.

Salvatore Giordano






[1] Il pronunciamento del Gran Consiglio del Fascismo che destituiva Mussolini  è del 25 luglio 1943.
[2] Montanelli-Cervi, Storia d’Italia-L’Italia del Novecento, Milano, Fabbri Editori, 1998, pp.244-245.
[3]La situazione era quella che avremmo vista rappresentata nel film di Luigi Comencini, Tutti a casa, del 1960, con l’interpretazione di Alberto Sordi.
[4] Testimonianza di Vincenzo Siciliano (Vicinzu Barraggiddu).
[5] Giovanni De Luna, La Resistenza perfetta, Feltrinelli, 2015. Bianco, Dante Livio, Guerra partigiana, Einaudi, 1974.
[6] Amelia Crisantino, I partigiani siciliani liberatori di Torino, la Repubblica, 23 aprile 2005, sezione: Palermo.
[7] Carmela Zangara, Ecco i partigiani di Sicilia, la Repubblica, 25/4/2008.
[8] Mauro Begozzi (a cura di), Dalla Sicilia per la Libertà. I combattenti siciliani nelle fila delle formazioni partigiane del Novarese e del VCO. Su “Nuova Resistenza”, Luglio-Agosto 2007. Inserto speciale.
[9] I dati relativi ai caduti, come quelli che riguardano la partecipazione dei siciliani alla resistenza, sono approssimativi e parziali e non da considerare come esaustivi e definitivi.
[10] Dalla scheda biografica ANPI di Palermo: on. .P. Colajanni, nato a Caltanissetta il 4/1/1906, morto a Palermo nel 1987 ”…fu sottosegretario alla Difesa nel primo governo Parri e nel primo governo De Gasperi, ricoprì diverse cariche politiche di rilievo nel Parlamento nazionale e nell’Assemblea siciliana.  Fu segretario delle federazioni comuniste di Enna e di Palermo.
[11] Nunzio Di Francesco “Il costo della libertà. Memorie di un partigiano combattente superstite del campo di sterminio di Mauthausen e Gausen 2”.Bonanno 2007.





28 maggio 2019

L’UMILTÀ



L’UMILTÀ

Quante volte abbiamo fatto a meno dell’umiltà
dietro a camici o nastrini,
costernati da scritte per una qualche appartenenza?
Oppure sotto il peso di stendardi, in ambìte cerimonie,
ove tutta la nostra magnificenza tende a spiccare
tra le voci dei presenti?
Quante volte abbiamo fatto a meno dell’umiltà
dietro a un cartellino con scritto il nostro nome,
sotto ai nostri gomiti, poggiati sui tavoli
nel mentre di una conferenza?
Quante volte dell’umiltà ci siamo dimenticati,
sfilando per le vie di paesi e città,
a testa alta, non per coraggio
bensì per sbandierare una carica
oppure un compito speciale?
Che n’è stato dell’umiltà in discorsi
volti a spiegare cosa fosse la stessa umiltà?
Nel prestigio di chi s’ostina
a predicare sempre questa stessa parola?
In una carezza o una stretta di mano
fatta ad un nostro fratello
solamente per riempire la memoria di un cellulare,
scattando così l’ennesimo selfie?
Quante volte abbiamo fatto a meno dell’umiltà
nei nuovi pulpiti elettronici,
pronti a pronunciare sentenze dalla tastiera di un computer
oppure dai tasti di un cellulare,
piuttosto che elargire coerenza?

L’umiltà, questa nostra sconosciuta sorella,
che non possiamo raggiungere con una pergamena di laurea,
né sfiorare tra i più complicati libri di filosofia,
che abbiamo sbadatamente perduto
nell’affamata motivazione della nascita di nuovi gruppi,
di nuove associazioni; oppure in chi, capace solo di giudicare,
non riesce a trovarla nel conforto nella coerenza.
Per cui, volendo citare il famoso Esopo:
forse l’umiltà non risiede in chi,
non essendo in grado di superare
le proprie difficoltà,
s’ostina a dare la colpa alle circostanze.

Giovanna  Modesto




19 maggio 2019

Preghiera a Dio: Un Racconto di Paolo Cortesi





per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html

La notte del 5 agosto 1934, alle tre di notte del 5 agosto 1934, Ernestina Duranti scelse il coltello.Lui, il marito, Luigi, era tornato ancora una volta ubriaco. Lei stava sveglia ad aspettarlo, con gli occhi che le bruciavano per il sonno negato e un ronzio acuto e discontinuo nelle orecchie che sembrava il sibilo del silenzio di quella notte calda. Aspettava alzata perché doveva vedere com'era la sbornia del marito: certe volte rincasava piangendo, lamentoso e con brevi gesti incerti, come se tutto in lui si fosse rimpicciolito, o ammalato. Ma altre volte, ed era più spesso, tornava furibondo, strillava e dava gran calci ai muri delle case lungo la strada, e lei lo sentiva arrivare di lontano e iniziava ad avere paura.Allora, si affacciava senza mostrarsi e guardava Luigi: le faceva schifo. Le faceva ribrezzo la sua figura scura e gonfia, da cui spiccavano solo la pancia e i capelli arruffati, come se fossero stati tirati. Lo vedeva barcollare, restare a lungo immobile, tentando di trovare equilibrio sulle gambe deboli; restava fermo, come assorto, mentre invece era stordito dal vino e non camminava perché non poteva vedere niente.Lo vedeva accostarsi ad un angolo, portare le mani al ventre, sbottonarsi a fatica i calzoni e pisciare. Con un braccio si appoggiava al muro. Il rivolo correva, luccicante, nero, verso il centro della strada; e anche pisciando lui ondeggiava e parlava, urlando qualcosa e non pareva nemmeno voce di uomo.Lei stava nascosta dietro le persiane, e lo guardava e lo detestava sempre di più mentre contava i minuti che la separavano dal suo entrare in casa. Sentiva che lui tentava di infilare la chiave nella serratura, ma non ci riusciva. Prima, lui cercava anche mezz'ora di aprire da solo; ora invece, dopo avere preso la chiave dalla tasca, iniziava a gridare e a dare pugni terribili alla porta.Lei, mesi prima, accorreva in fretta, perché non voleva farlo arrabbiare, ma ormai sapeva che l'avrebbe picchiata anche se gli avesse aperto subito, così lo lasciava fuori di casa più a lungo. Luigi gridava, ruttava; i vicini, nel caseggiato, non uscivano più sulle scale e nessuno diceva più niente, perché tutti avevano paura di lui che era un ubriaco cattivo e che, sobrio, era una spia dell'Ovra e poteva rovinare chi avesse voluto.Anche quella notte del 5 agosto avvenne tutto come sempre. Lo sentì arrivare prima ancora di vederlo svoltare l'angolo della strada. Cantava la stessa strofa d'una canzone, la ripeteva all'infinito e si capiva che gli piaceva tanto, mentre a lei sembrava come il verso delle bestie che non cambia mai.Una finestra d'una casa si accese: il rettangolo giallo s'aprì nel buio confuso del palazzo; un uomo in canottiera, calvo, guardò giù; aveva gesti irosi, muoveva le mani ed avrebbe di certo imprecato, o scaraventato un catino d'acqua, ma vide che era Luigi Tanacci, il sarto che faceva il confidente dell'Ovra (lo sapevano tutti e a lui non dispiaceva), così disse qualcosa a voce bassissima e tornò dentro. La luce si spense. La strada tornò muta, come un varco scavato in una montagna nera.Luigi Tanacci fece due passi sbilenchi in avanti, poi altri due passi indietro. Poi restò fermo, ma con la schiena un po' curva, le braccia penzoloni, cercando l'equilibrio, come fanno quelli che si trovano sulle barche. Alzò la testa, con la nuca toccò le spalle. Urlò qualcosa, mentre arruffava la camicia, mentre frugava nelle tasche dei calzoni bagnati di piscio.Entrò dal portone che era aperto e cominciò a salire le scale. Solo una lampadina, appesa a un filo elettrico contorto, faceva luce, ma era una luce stinta, come trattenuta, che faceva un po' di giallo sul pavimento dei pianerottoli e accendeva le chiazze di muffa viola nelle pareti.Ernestina stava dietro la porta chiusa, vi era appoggiata con la schiena, teneva le mani giunte davanti alla bocca e pregava: "Signore, fallo morire. Schiantalo d'un colpo secco prima che tocchi questa porta. Per amore di Gesù, ammazzalo, questo porco maledetto. Aiutami".Lui arrivò. Il primo calcio che dette alla porta fece balzare Ernestina che trattenne il respiro. E poi lui dette altri calci e altri pugni, mentre gridava:- Apri, apri, brutta scimmia! Apri schifosa! Apri cagna! Apri ché ti spacco la testa! -Ernestina pensava: "E se lo lasciassi fuori tutta la notte? magari gli passa la sbornia...", ma concluse che sarebbe stato peggio, che avrebbe di certo sfondato la porta e la sua furia sarebbe stata maggiore. Allora, già sapendo precisamente come e quanto l'avrebbe colpita (perché, dopo un po', lui si faceva male alle mani e si stancava, e si buttava bocconi sul letto e dormiva con la bocca aperta da cui usciva la saliva acre di vino), già sapendo che il primo schiaffo sarebbe stato alla faccia, tra zigomo e naso, aprì la porta. Alle tre di notte, Luigi crollò a letto; l'aveva pestata così tanto che si era spaccata la pelle sulle nocche della mano destra. Ernestina, allora, andò in cucina. Mise uno strofinaccio sotto il rubinetto e lo bagnò, poi se lo premette sulla faccia, sulle labbra; era tutta gonfia e sentiva il sangue battere sotto gli ematomi ancora caldi. Aprì il cassetto della credenza, dove c'erano le poche posate buone del servizio che erano rimaste (le altre se l'era vendute tutte lui, per pagarsi il vino). E guardò un coltello: la lama era lunga e sottile, ma non tanto da sembrare fragile, era anzi una lama larga due dita, lucente, con la punta come una sciabola; sembrava la scimitarra del sultano che aveva visto, una volta, al cinematografo.Scelse quel coltello, lo nascose nel cassetto del suo comodino, di fianco al letto, e giurò a dio che, alla prossima volta che lui fosse tornato ubriaco e l'avesse battuta, lei lo avrebbe ucciso: gli avrebbe infilato tutto il coltello nel cuore mentre stava dormendo. E se anche la mandavano alla fucilazione, non le importava niente, perché tanto quella non era vita da vivere.Nelle giornate seguenti, come sempre, Luigi non ricordò neppure l'ubriacatura e le botte. Era come se non fosse successo niente. Usciva al mattino per aprire la bottega, tornava ad ora di pranzo e scambiava anche qualche parola con la moglie: -Oggi è venuto a farsi la barba il cavalier Rosati. Quello che ha la macchina.- ; -Ma com'è calda questa estate!- ; - Buone queste polpette...-Lei rispondeva appena "sì" e "no". Lui vedeva i lividi, il grumo bruno di sangue cristallizzato che si apriva, come un piccolo minerale, sul labbro; lui vedeva la palpebra tumefatta, ocra, che restava semiaperta tanto era enfiata. Ma non diceva niente.Qualche tempo prima, Luigi aveva promesso a se stesso che non avrebbe più bevuto e che avrebbe smesso di sfinire a botte quella poveretta che non aveva nessuna colpa. Poi, però, il gusto di continuare a fare quello che voleva fu troppo forte. Rinunciare al bere gli sembrò un sacrificio eccessivo e inutile. E, in fondo, due sberle ogni tanto non avevano mai ammazzato nessuno; così - con pensieri che non erano un vero ragionamento ma piuttosto una sensazione cui non si presta troppa attenzione perché naturale, come la fame o la sete - il proposito di non bere più svanì; divenne tanto remoto che lui, quando ci ripensava, quasi si trovava ridicolo.Gli piaceva bere, come a tutti gli uomini, e non era colpa sua se il vino e la grappa gli davano alla testa peggio che ad altri. Non si sentiva colpevole di quelle ubriacature più di quanto si sarebbe sentito responsabile di capogiri o di una cattiva digestione: era natura, era fatto così. E le mogli devono avere pazienza, pensava confusamente, e lei gli doveva tutto: un appartamento che non avevano nemmeno i professori del liceo mentre lui era arrivato solo alla terza elementare; poi lei aveva vestiti per l'estate e per l'inverno, scarpe senza buchi, mangiavano bene. Non si sentiva in difetto per niente.Dunque, Luigi concluse che la sua passione per il bere, e le cose che faceva dopo, erano sì qualcosa di rumoroso e non proprio bello da vedere, ma c'era molto di peggio e già nel loro caseggiato lui poteva citare come esempio più riprovevole un tale di nome Rebonati Adelmo che era scappato con una ballerina del circo, lasciando moglie e tre figli piccoli.La sera del 13 agosto 1934, Luigi andò all'osteria. Ernestina capì che sarebbe tornato ubriaco perché, ormai, sapeva interpretare un certo sguardo incupito e distante, come se stesse pensando ad affari strani e difficili. Appena lui uscì, Ernestina andò al comodino, lo aprì e guardò il coltello che aveva avvolto in un tovagliolo candido. Lo prese in mano e avvertì il peso, la forma piena e liscia che riempiva la mano stretta attorno al manico tornito.-Questa notte glielo pianto nel cuore.- disse. Non lo pensò soltanto, ma lo disse proprio, a voce bassa ma chiaramente, come lo annunciasse in segreto a qualcuno lì vicino a lei.Lui tornò verso le quattro. Ma, quella volta, non strillava: piagnucolava, si faceva il segno della croce, cadeva in ginocchio e farfugliava. Lei lo osservò stupita, ma sempre disgustata e sempre col timore che, da un momento all'altro, lui iniziasse a batterla. Poteva accadere, perché un ubriaco è imprevedibile e fa spesso quello che si teme di più. Quella notte, però, Luigi aveva una sbronza triste e fiacca. Bussò alla porta di casa con pochi colpi nemmeno troppo forti, tentò di abbracciare la moglie ma lei lo scostò con le dita tese e girò la faccia verso il muro per evitare il suo fiato acido.Sentì, tra i gemiti, delle parole: - Perdonami, perdonami... perdonatemi tutti....- E ancora, mentre si strisciava il fazzoletto sugli occhi: -Sono una canaglia... sono una spia... quanti ne ho fatti finire in galera!... quanta gente ho fatto piangere... sono un farabutto... -Allora, Ernestina, senza dire nulla, gli cinse la vita con un braccio e con l'altra mano si mise il suo braccio sulle spalle; lo portò a letto e lo distese; lui lasciava fare e ripeteva con la voce stridula:- Quanto sei cara... quanto sei buona con me... non merito... non merito niente....-Ernestina iniziò a spogliarlo. Quando sbottonò la giacca, esalò un soffio caldo e umido, un sentore marcio di sudore e di sporcizia che le dette disgusto. Lui tentò di accarezzarle la testa; lei gli fermò la mano e il braccio cadde molle e pesante sul materasso; lui aveva iniziato a russare.Ernestina gli sfilò la camicia, gli tolse la canottiera giallastra. Appoggiò l'orecchio destro al petto per sentire dov'era il cuore. Prese il coltello, lo puntò, dritto perpendicolare, nel punto del torace che aveva individuato; mise le due mani sul manico del coltello e vi si appoggiò con tutto il peso del corpo, a braccia rigide. La carne si aprì con un colpo duro di lacerazione, il sangue uscì prima come un piccolo sputo poi non se ne vide più perché colava lento.Luigi inarcò la schiena e dette un grido atroce; lei gli mise una mano sulla bocca e con l'altra spingeva e ruotava il coltello dentro il petto. Poi lasciò la lama quasi completamente dentro il corpo e portò le due mani alla gola dell'uomo; lo strozzava.Lui fece qualche gorgoglio brutto, ebbe alcuni scossoni e lei pensò, per un istante, ai conigli che ammazzava con una bastonata dietro al collo - mentre li teneva per le orecchie - e che si dimenavano in guizzi velocissimi ma brevi.Tutto il lenzuolo era inzuppato di sangue, che cadeva a filamenti larghi sul pavimento. Le sembrò che anche il sangue puzzasse di vino. Andò alla finestra aperta; respirò forte e restò in piedi, ferma, appoggiata, a guardare la strada deserta piena di angoli colmi d'ombra. C'era solo un lampione, all'altro capo della via, e vide tante falene e tante farfalle che giravano frenetiche in cerchi obliqui.