14 settembre 2018

Invito alla lettura: Boccamurata di Simonetta Agnello Hornby


“Boccamurata” è il terzo romanzo della cosiddetta trilogia, come l’autrice stessa l’ha definita. Una trilogia, per la verità, senza punti in comune con i romanzi precedenti: “La Mennulara” e “La zia marchesa”. Ma trilogia la dobbiamo chiamare. Pur diversi per personaggi, ambienti sociali, situazioni ma così simili per le passioni, la sensualità prepotente degli “attori” che Simonetta Agnello Hornby mette in scena, costruiti con la solita e riconoscibilissima maestria, la “parlata siciliana”, i paesaggi sempre descritti da suscitare nostalgia ai siciliani che ne sono lontani.
Toccante per me lo sguardo su un peschereccio che si osserva da lontano "navigava orizzontale, come una foglia trasportata dalla corrente".
Il romanzo si apre con una tranquilla e tradizionale riunione familiare: il compleanno del nonno Tito attorniato da figli e nipoti. Mariola, la moglie, che imbandisce la tavola con tutti i suoi piatti preferiti.
Un quadretto famigliare perfetto; Tito soddisfatto, osserva divertito da patriarca autorevole. Chiama figli e nipoti con i nomignoli che ha dato a ognuno di loro: capellini, rigatoni, spaghetti... nomignoli, che senza nessuna fantasia, affibbia loro per essere il proprietario del grande pastificio ereditato dal padre. Ma il personaggio sulla quale s’innerverà il racconto è la zia Rachele.
Custode attenta della casa, è per Tito, da sempre, un punto di riferimento imprescindibile. Tito che non ha conosciuto la madre è stato cresciuto ed educato da questa zia, che ancora adesso lo guida e lo consiglia sulle decisioni importanti che riguardano la famiglia e il pastificio.
Questo rassicurante interno famigliare è solo apparente, nasconde invidie e tradimenti. Lo stesso Tito vive un grande dolore, il tormento di non avere conosciuto la madre.
Nel clima sereno della festa il nipote Titino, il preferito, per un compito assegnatogli a scuola gli chiede di aiutarlo a fare la "La ricostruzione dell'albero genealogico della sua famiglia".
Questa richiesta riapre la grande ferita, riportandolo al suo difficile passato. Alle sofferenze e alle difficoltà vissute nell'infanzia e poi nella sua adolescenza. Quello che lui sa è quello che il padre, Gaspare, gli aveva sempre raccontato. Di essere il frutto di un amore con una donna sposata e che da questa relazione clandestina, per salvare l’onore della donna amata, l’aveva cresciuto nella sua casa e affidato alle cure della sorella, la zia Rachele.
La scrittrice ricostruisce lungo tutto il romanzo la personalità di Tito della sua complicata famiglia è di sua “zia” Rachele che aveva rinunciato a sposarsi e dedicarsi completamente all'educazione di Tito.
La spasmodica ricerca della verità sulle sue origini, che scoprirà cinquant'anni dopo, con l'incontro di Dante, figlio di una ex compagna di scuola di Rachele. Tito viene in possesso di un pacco di lettere scambiate da Rachele con la mamma di Dante che gli riveleranno quello che non avrebbe mai sospettato. Le lettere dell’allora giovane Rachele gli sveleranno una verità sconvolgente.
Un tabù che lo porta a riconsiderare la figura di Rachele. Una rivelazione che gli da finalmente la serenità cercata tutta la vita e che gli farà dire di Rachele “la donna più trasgressiva che abbia mai conosciuto".
La zia è sempre vissuta con “la bocca murata” custode del suo segreto e del destino di Tito.
Un romanzo che ho apprezzato per l’apparente facilità di scrittura e che mi ha turbato per la scabrosa vicenda di Rachele. Consigliatissimo.

Lina Viola




07 settembre 2018

IL BANDITO TESTALONGA. LA RESISTENZA DI UN VINTO.


Un libro di ANNA MAROTTA, 
Giambra Editori,
prima edizione giugno 2018.


Come dimostrano i dati del mercato editoriale italiano degli ultimi anni, i piccoli e medi editori crescono dimostrando serietà e vivacità culturale, certamente salutari in un panorama spesso viziato dal conformismo. E proprio da questi editori coraggiosi ci arrivano autentiche perle come questo libro di Anna Marotta dedicato al famoso bandito
Testalonga. Il saggio nasce come Tesi di laurea dal titolo "Il bandito Antonino di Blasi alias Testalonga" (1728-1767), a conclusione del corso di laurea in Filologia Moderna, conseguito nel 2016 con il massimo dei voti e la lode presso l'Università degli Studi di Catania. Il valore aggiunto del libro consiste nell'aver coniugato il rigore delle fonti con lo stile narrativo. Lo storico/detective dovrà dipanare un'intricata matassa, dove non solo storia e leggenda sono intimamente intrecciati, ma dove il confine tra legge e fuorilegge risulta, come vedremo, assai labile.
Per prima cosa, l'Autrice descrive il contesto storico, politico e sociale nel quale il protagonista, anzi, i protagonisti si trovarono a vivere ed operare: il bandito Testalonga, il suo "antagonista", il viceré Fogliani, i nobili, il popolo e colui che nel libro viene chiamato "l'alter ego" del bandito, che "nel tormentato inseguimento tra guardia e ladro , si scontrò con qualcosa più grande di lui che non avrebbe mai immaginato", il principe di Trabia Don Giuseppe Lanza, nominato Vicario dal viceré con l'incarico di catturare Antonino di Blasi e la sua banda.
Nella Sicilia del Settecento si susseguono ben quattro dominazioni: quella spagnola, sabauda, austriaca e infine borbonica, ma per i siciliani cambiava poco o nulla essendo semplici pedine nelle mani dei potenti e succubi di un sistema dove imperavano i privilegi e gli abusi nobiliari e l'oppressione tributaria e dove anche la natura faceva la sua parte con catastrofi, epidemie e carestie di raccolti, come la crisi del grano del 1763. Sono proprio gli anni in cui il di Blasi si diede alla macchia. Intanto, una precisazione terminologica e storica: banditismo e brigantaggio sono due fenomeni diversi, anche se spesso vengono confusi. Tra il Cinquecento e il Settecento venivano chiamati "banditi" coloro che erano colpiti dal bando, cioè da un decreto di espulsione dalla comunità; il brigantaggio fu fenomeno successivo e più complesso, che interessò migliaia di persone che non possono essere sbrigativamente e sommariamente liquidate come "delinquenti", ma che ebbe il carattere di una vera "insorgenza", dapprima contro i francesi e il giacobinismo e che esplose soprattutto dopo il 1860 contro uno Stato che evidentemente in troppi percepivano come oppressore e invasore. Contro banditi e briganti il potere rispose con una repressione cieca e selvaggia, fatta di torture, esecuzioni sommarie, teste mozzate e corpi smembrati. Una triste pagina di storia che solo di recente è stata raccontata anche "dalla parte dei vinti". L'altra faccia di questa feroce repressione era rappresentata dal compromesso, dallo scendere a patti con i malviventi da parte di molti settori "altolocati" della società.
Antonino di Blasi nacque il 19 febbraio 1728 a Pietraperzia. Ultimo di sette figli, crebbe in un ambiente povero e privo d'istruzione. A soli 15 anni sposò Antonia Anzaldo che di anni ne aveva addirittura undici. Non sappiamo esattamente che lavoro facesse il giovane sposo, comunque per un certo tempo cercò di sbarcare il lunario. Poeti, romanzieri e cantastorie hanno tramandato il momento in cui Antonino si diede alla macchia. Lo fece dopo aver ucciso il bargello (nome con il quale si indicava il capitano militare addetto all'ordine), perché questo gli aveva assassinato la madre. Una "romantica leggenda" come la definisce Anna Marotta, che non trova riscontri oggettivi poiché si è potuto appurare dall'archivio della Chiesa Madre di Pietraperzia che la madre morì quando Antonino aveva tra i tre e i quattro anni. L'idealizzazione del bandito come una specie di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri, anche se priva di prove che ne dimostrino la veridicità, risponde pienamente all'anima di un popolo assetato di riscatto e di giustizia. "La leggenda - scrive Marotta - diventa uno specchio riflettente di quei difficili anni, anche perché i bargelli, così come i gabelloti e i campieri, rappresentavano gli emissari dei "nobili" feudatari e loro erano i fautori delle peggiori barbarie a danno del popolo" Plausibile è la notizia secondo cui Antonino di Blasi scontò tre anni di carcere ad Agrigento per aver rubato un bue. Rimesso in libertà incrociò il suo destino con quello dei compagni di (s)ventura Giovanni Guarnaccia di Pietraperzia e Antonio Romano di Barrafranca. Insieme organizzarono una temibile e numerosa banda i cui primi movimenti sono attestati, come si evince dal fondo Trabia presso l'archivio di Stato di Palermo, a partire dal 1766. Il primo luglio di quell'anno l'Avv. Fiscale Don Giuseppe Iurato scrive al viceré Fogliani mettendolo in guardia sulle malefatte della banda ed invocando i necessari provvedimenti. Viene subito promulgato un bando con cui si mette una taglia di cento onze sui tre principali capi della banda: Testalonga, Guarnaccia e Romano. Da questo momento non sono più semplici ladri, ma "abbanniati", banditi. L'attività principale della banda consisteva nell'assaltare le masserie ed estorcere ai benestanti il denaro con cui Testalonga creò una fitta rete di complicità, anche ad alti livelli, tanto da dimorare tranquillamente presso nobili ed ecclesiastici. Alla banda viene attribuito un solo omicidio, quello del Tenente dei barrigelli di Butera, ma non imputabile al Testalonga. In seguito al bando, il Guarnaccia si separò dal resto della banda seguito da tre compagni, ma nel mese di ottobre vennero catturati a Regalbuto e il 10 novembre furono impiccati a Palermo nella Piazza della Marina. Testalonga, Romano e gli altri, per nulla intimoriti, continuarono le proprie scorribande assaltando feudi e masserie. Ed ecco entrare in scena Don Giuseppe Lanza Principe di Trabia che, come abbiamo già detto, viene nominato Vicario Generale Viceregio. Una volta ricevuto l'incarico dal vicerè, egli organizzò il suo quartier generale a Mussomeli e promulgò subito un bando nel quale si fissava la taglia per ciascun bandito. Deciso a stroncare l'attività della banda, il Vicario inviò corpi armati a perlustrare campagne e grotte e non esitò ad assumere come spie e capitani elementi della malavita. Dai suoi informatori e dalle numerose lettere anonime ricevute, Don Giuseppe Lanza compilò una lista dei complici e protettori del Testalonga, ai quali intimò di consegnare il bandito vivo o morto. Siamo all'epilogo della storia. Il 18 febbraio 1767 Testalonga e il suo fedele compagno Romano, in seguito ad un conflitto a fuoco, vennero catturati in una grotta nei pressi di Castrogiovanni (l'attuale Enna), traditi proprio dai principali protettori, i baroni fratelli Trigona di Piazza. Di Blasi e Romano, insieme ad altri componenti della banda, vennero portati a Mussomeli, torturati e condannati alla forca, sentenza eseguita il 7 marzo 1767. L'indomani i corpi vennero squartati e le teste tagliate, quella del di Blasi portata come trofeo a Palermo, la testa di Romano venne esposta a Barrafranca. Un potere corrotto a tutti i livelli si accanisce in modo barbaro sui cadaveri, ma nessuno dei numerosi protettori, prima additati dal Vicario, venne punito, anzi, intascarono riconoscimenti e ricompense. E allora, la domanda che più volte emerge scorrendo le pagine del volume, risulta pienamente legittima:" CHI SONO I VERI BANDITI?".
Anna Marotta ha compiuto un lavoro straordinario, da vera storica/detective ha consultato le carte con pazienza certosina (un intero capitolo è dedicato agli Archivi) restituendoci nella sua interezza la figura del bandito Testalonga e la sua epoca. Un libro che non può mancare nella biblioteca di ogni studioso o semplice appassionato della nostra storia.

Salvatore Marotta



02 settembre 2018

Invito alla lettura: Il fossile vivente e la donna dai capelli color mogano

Fabiola Gravina

Gregorio Servetti è un quarantenne reduce da storie sentimentali fallite, un personaggio con rigorosi principi etici, con valori di altri tempi, "un fossile" come lui stesso si definisce, per il suo mancato adeguamento ai tempi moderni, come fosse una reliquia di generazione passata. Pur consapevole di quanto le regole di correttezza morale siano un fastidioso bagaglio, non intende rinunciarvi e la sua reazione di fronte alla volgarità è assimilabile all’infelicità, certo che gli uomini possano  aspirare a qualcosa di più nobile. Soffre per la mancanza di una famiglia propria e la necessità di sentirsi amato lo stimola alla ricerca ostinata di una persona affine che possa colmare il vuoto  avvertito nell' intimo. In questa ricerca trova l'aiuto e la complicità della barista Gina, l'accidentale destinataria delle sue confidenze.
 Tutte le mattine, nel tempo di un cappuccino, Gina ascolta perplessa le dissertazioni esistenziali dell'amico in piena crisi di mezza età, bisognoso di dare un senso all'esistenza e proprio nel bar avviene il  fatale incontro con la donna  dai capelli color mogano,  che si siede ogni Martedì al tavolo d’angolo, con lo sguardo gonfio di malinconia.
L'intesa è immediata, perché l’inquietudine del viso di lei altro non è che una sorta di specchio dell’anima di Gregorio. La donna però scompare senza che ci sia stato il tempo di scambiare una parola e a nulla valgono le strategie inventate dall’amica barista per rintracciarla e restituire il sorriso al fedele amico sull'orlo del tracollo. La vicenda cambia registro quando la donna dai capelli color mogano e dagli occhi nocciola si presenta nuovamente nel bar, ma a sentir Gina è soltanto una copia venuta male. Sono dunque due, le donne dai capelli color mogano?  Il mistero si infittisce con il ritorno di  Manlio, amico del cuore di Gregorio.

La sua decisione di rientrare in Italia e lasciare di punto in bianco una carriera e un lavoro ben remunerato, ha forse a che fare con le due donne? Altri  personaggi arricchiscono la vicenda: la dolce Viola in cerca di un potenziale padre per i suoi figli; l'ambigua Giada che calpesta i cuori degli uomini che s’impigliano nella sua infida rete; l'opportunista Marco, emblema della disonestà e dei facili guadagni; la scaltra Katia, che impartisce lezioni su come gestire al meglio una relazione amorosa; l'eterea Estella, vecchio amore impossibile da dimenticare; lo sventurato Aquiletti, studente lacunoso alla ricerca dell'agognata promozione. Una serie di singolari eventi  porteranno il subbuglio nella monotona vita del protagonista e lo costringeranno a mettere in gioco ogni carta per portare a termine il suo piano sentimentale.  Gregorio Servetti sperimenterà sulla propria pelle la bellezza dell’innamoramento negli anni della maturità, il valore dell’onestà e della rettitudine, il dono prezioso dell’amicizia e il sapore amaro dell’inganno. Leggetelo, non vi deluderà.

Fabiola Gravina