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06 maggio 2019

Via 4 Novembre e dintorni: La famiglia Rabita - 3^ Parte




Tra tutti i nostri vicini di casa ai quali si è accennato, la persona con cui la mamma si trovò più in sintonia fu la signora Giuseppina Aiesi, moglie di don Filippo Rabita. Tra lei e la signora Giuseppina fu subito simpatia reciproca; nel tempo si stabilì tra di loro una perfetta intesa che si consolidò in rapporto di stretta e duratura amicizia che coinvolse entrambe le famiglie. Nella signora Aiesi Rabita, di lei più anziana, la mamma, giovane sposa e già mamma poco più che ventenne, trovò una consigliera e un’interlocutrice ideale. La signora sua omonima trovò nella mamma un’allieva intelligente e intuitiva. Non erano necessarie fra le due molte parole per intendersi, si comprendevano con lo sguardo. Persone entrambe schiette, genuine e disponibili alla collaborazione, davano ai rapporti e alle cose peso e valore appropriati; dotate di una certa giovialità e senso dell’umorismo, sapevano cogliere l’aspetto comico delle situazioni. «La signora Rabita fu la prima ad apprendere della mia nascita», racconta Maria, «la mattina della domenica di quel 29 giugno, quando alla signora Aiesi, affacciatasi alla sua finestra di via Rosolino Pilo per chiamare mamma - si erano intese il giorno prima per andare insieme a messa - la nonna Maria Cava comunicò che, nella notte, ero nata io». Don Filippo Rabita aveva il suo laboratorio dietro la chiesa del Rosario, in via Fenice (ora Don Minzoni); vi esercitava l’arte assieme al fratello Liborio e ai propri due figli. Appena svoltato l’angolo, da piazza Matteotti, già si sentiva il rumore degli attrezzi in funzione e si avvertiva l’odore della polvere del legno, sempre più penetrante man mano che ci si avvicinava. All’interno del locale, si notavano, appoggiate alla parete di fronte all’entrata, assi di legno di vario tipo e di diverso spessore che toccavano quasi il soffitto; rastrelliere piene di attrezzi, righe e squadre pendevano dalla parete di destra, per lo più occupata da pezzi di mobili in costruzione. Addossate alla parete di sinistra e sostenute, su tre piani, da robusti spuntoni sporgenti, si intravedevano, benché fossero coperte da un telone grigio, casse dalla forma inquietante. Tra le casse e l’angolo sinistro di fondo stava il tornio. Due solidi banconi, con ampi incavi sui piani da lavoro e terminanti con grosse morse, erano sistemati perpendicolarmente alla parete di fondo. I Rabita costruivano ogni genere di mobile; seri e puntuali, godevano di un vasto numero di clienti. «Io però mi ci recavo», dice Salvatore, «soprattutto per farmi costruire
li rrummula: appena venivo in possesso del tronchetto di ulivo, correvo da don Filippo, sicuro e fiducioso, e lo osservavo mentre, tra una pausa e l’altra di lavori più seri, sistemato al tornio il pezzo di legno, lo sgrossava da una parte e dall’altra e lo rifiniva per dare all’oggetto la grandezza e la forma desiderata. Grazie a lui si potevano infatti ottenere, passione di tutti noi ragazzi, trottole personalizzate, della fattura che si voleva, tornite ed eleganti, dei veri prodotti artistici, ben diverse dalla rozze e grossolane trottole, tutte uguali, che si compravano alle bancarelle del mercato o al negozio di Magliocca. Peccato non averne conservata neppure una. Alla sua bravura nel lavorare il legno», prosegue Salvatore, «don Filippo univa molta bontà e pazienza; parlava sempre in modo calmo e pacato; mi spiegava, rispondendo a certe domande che, incoraggiato dalla conoscenza, osavo rivolgergli, che il bancone da lavoro del suo laboratorio era costruito con un legno americano, «forti cumu lu firru, lu piscipagnu» (pitch-pine), che il rumore lacerante che si sentiva mentre veniva segato era il lamento del legno, perché «anchi lu lignu soffri, cumu li cristiani».

«Impossibile per me», dice Maria, «dimenticare la figura di don Filippo Rabita. Me la ricorda costantemente un piccolo mobile che, posto in bella vista, adorna tra gli altri l’entrata della mia casa a Torino. Si tratta di un comò in miniatura stile ‘800, che don Filippo mi regalò quando ero ancora bambina. È un modellino alto 45 cm per cm 38 di larghezza, con i piedini a cipolla, le colonnine laterali tornite a bottiglietta, cinque cassettini estraibili, due piccoli superiori e tre grandi inferiori. Lu cantaraniddu, posto in un angolo del laboratorio e coperto di polvere, aveva attirato la mia attenzione una volta che, per caso, avevo accompagnato papà alla falegnameria Rabita, e me ne ero innamorata. A lungo lo avevo ammirato e desiderato! Quando mi capitava di transitare dalle parti di Piazza Matteotti, mi avvicinavo al laboratorio, entravo, mi accostavo al mobiletto, lo spolveravo, lo fissavo, uscivo col piccolo comò che mi ballava davanti agli occhi. Don Filippo intuiva il mio desiderio, ma restava apparentemente indifferente: mi fece patire un po’, forse il mobiletto gli ricordava suo padre, l’artefice, e non voleva separarsene. Ma “il miracolo” avvenne. Il giorno in cui si compì, don Filippo mi disse: “Maria, eccolo, è tuo, ma, mi raccomando, tienilo bene”! In quel momento il cuore mi batteva forte dalla gioia! A casa lo tenni sempre vicino a me. Un giorno a scuola ne decantai i pregi e le bellezze in un componimento che la maestra ci aveva assegnato:”Parla di un oggetto a te caro”. Quando mi sposai e dovetti trasferirmi a Torino lo lasciai in paese sicura che sarebbe stato ben custodito, ma col pensiero di fargli attraversare lo stretto il prima possibile. A qualche aspirante la mamma ripeteva “è di Maria, non si tocca!”. Dovevano passare diversi anni prima di avere il mobiletto di nuovo con me. Accadde quando mia sorella Michela, venduta la bella casa di via Principessa Deliella, portò su i mobili che costituivano per noi oggetti di maggior pregio, soprattutto dal punto di vista affettivo, alcuni dei quali portavano i segni di nostri interventi impropri. Tra essi, accuratamente impacchettato, il mio “giocattolo” finalmente partì da Pietraperzia per la sua nuova dimora. Giunto a Torino fu portato da un restauratore che, con una modesta spesa, ridiede al mobiletto il suo originale splendore. Ora il piccolo comò, posto in bella vista, adorna tra gli altri mobili l’entrata della mia casa; lo sposto secondo l’inclinazione del momento, ma sempre negli angoli più in vista. Passa il tempo e inesorabile lascia su tutti noi le sue tracce, ma lui, lu cantaraniddu, non registra il fenomeno: sempre più bello, lui sì è sempre come fosse appena nato».

L’amicizia tra le due famiglie si consolidò col tempo e continuò, senza mai uno screzio o una semplice incomprensione, anche quando i Rabita lasciarono la casa di via 4 Novembre e si trasferirono in Via San Giuseppe. Scomparsi don Filippo e donna Giuseppina, l’amicizia è proseguita soprattutto con Giuseppe Rabita, che ci aveva visto nascere e fatto giocare nei nostri primi anni di vita. «Nel mio album delle fotografie», dice Maria, «una ne conservo, scattata nell’occasione del passaggio di un fotografo ambulante dalla via 4 Novembre: sono seduta su un tavolo ricoperto da un tappeto di ciniglia; accanto al tavolo, sul cavallino a dondolo, mio fratello con il boccolo ben ordinato. Tutte le volte che ci incontriamo, Peppino non manca di ricordarmi quell’episodio: egli, nascosto dietro il tappeto, mi sostenne con una mano per paura che cadessi all’indietro. Non avevo ancora un anno, mio fratello ne aveva circa tre». Peppino ha continuato ad esercitare l’arte del padre, con le stesse competenza e abilità, sino alla pensione. Era una sua specialità la costruzione delle persiane con le gelosie movibili, cosa che richiede precisione e pazienza. Il nostro rapporto è stato, ed è, caratterizzato dagli stessi sentimenti di sincerità, schiettezza e di stima reciproca oltre che da vicendevole aiuto in momenti di difficoltà, come capita a tutti nella vita. Per noi è rimasto “cumpari Pippinu”, come erano soliti chiamarsi con papà e mamma, così come “Cummari Maria” mamma chiamò sempre la sua signora (Maria Marotta) quando Peppino si sposò. Fu lui che ci accolse per primo in Piazza Vittorio Emanuele, il 18 agosto del 2005, quando tornammo in Sicilia dopo venticinque anni di assenza, con la stessa premura con cui accoglieva mamma e Michela, quando, quasi ogni anno, d’estate, tornavano al paese. Assieme a lui facemmo il giro del cimitero, fermandoci, dopo la visita ai nostri cari, a ricordare, davanti alle loro tombe, parenti, conoscenti e amici scomparsi. Per tutta la mattinata visitammo i luoghi del paese, ricordandoci vicendevolmente gli eventi e i momenti che avevano visto vicine le nostre famiglie.

Alla sua abilità di artigiano del legno, Peppino Rabita associava una grande passione per il ballo, una passione incontenibile: dotato di grande sensibilità musicale e di una naturale attitudine, non c’era musica che non sapesse immediatamente, e senza alcuna difficoltà, ispirargli i passi da compiere e le figurazioni da assumere. Ballare lo appagava, niente gli dava maggiore soddisfazione. Di sentimenti romantici ed animo di poeta, esprimeva nel ballo l’autenticità della sua natura. Amava ballare il valzer, il tango, la polka e tutti i balli classici della tradizione, ma ballava anche, con la massima disinvoltura, i nuovi balli, latino-americani, afro-cubani, man mano che venivano importati nel nostro paese; il ritmo del bughi-bughi (Boogie-Woogie), del samba, del charleston gli mettevano addosso una forte carica di entusiasmo. Il periodo dell’anno che preferiva era quello del carnevale, durante il quale poteva dare sfogo alla sua passione dominante. Assieme alla sorella Piera, anch’essa abile ballerina, giravano per le vie del paese, vestiti in maschera, chiedendo un ballo nelle case dove si tenevano serate danzanti. Vederli ballare faceva pensare a Fred Astaire e Ginger Rogers, la celebre coppia di ballerini americani. Erano subito riconosciuti perché era nota in paese questa loro predilezione; sempre applauditi e invitati a restare, accettavano di fare un altro ballo, ma raramente si fermavano. Era come se avessero una missione da compiere: essere i testimonial della danza. Anche il fratello Vincenzo era portato per la musica, suonava ottimamente la fisarmonica ed era un bravo ballerino: quando si sposò con Anita Cutaia, figlia di don Arfonziju Cutaija, impiegato comunale, le coppie diventarono due. Fu questa attitudine che portò i due fratelli ad unirsi ad un gruppo di altri valenti suonatori e a fondare un complesso, il “Gempen”, in cui Peppino fu apprezzato batterista. L’orchestrina riscosse grande successo tra i pietrini e per molti anni allietò trattenimenti matrimoniali, feste di battesimo, serate danzanti. Quanto alla intitolazione del complesso, ”Gempen”, il significato resta un mistero, noto forse solo a qualcuno dei componenti del gruppo.

Lunga vita, compare Peppino, e grazie di questa amicizia!  

Maria e Salvatore Giordano





29 marzo 2019




Mentre riguardo sul blog di don Pino Carà “ Amici d’infanzia alla Cava”, penso agli altri momenti che hanno segnato intimamente questa mia immersione totale nel “grembo della madre”. Immancabile fu la visita, là dove riposano per sempre, alle persone care che ci avevano dato la vita, l’esempio e spianata la strada per il nostro cammino. Lo facemmo assieme con Filippo Viola, Saro e il nipote Franco nella mattinata fredda e piovosa di quel venerdì 13 aprile. La sera prima avevo salutato zia Maria Giordano e il cugino Franco, in partenza per Roma, che mi avevano aspettato per darmi le chiavi della loro casa a cui però avevo rinunciato. Con Saro Siciliano, vicini per problemi organizzativo-logistici e disponibilità di tempo, decisi a non mancare all’appuntamento, eravamo riusciti a ritagliarci sei giorni tutti per noi. Casa Siciliano ci avrebbe ospitati per quella settimana. In certi periodi della nostra giovinezza c’erano stati, tra Saro e me, momenti che “nni spartiva sulu lu sunnu di la notti,”ci divideva solo il sonno della notte; questa volta neanche quello. Ma la circostanza era segnata da un elemento di tristezza: più volte don Pino mi aveva invitato a casa sua e adesso che avevo accettato l’invito, don Pino non c’era più. Tutto però parlava di lui in quella casa, dai libri sulla scrivania e sugli scaffali, ai quadri alle pareti, al ritratto di Giovanni Paolo II in una cornice dorata, ad ogni cosa che toccavamo e usavamo: la sua caffettiera , le sue tazze, le sue posate, le sedie su cui ci sedevamo e il tavolo a cui ci accostavamo per fare colazione. Di lui ci parlavano anche i due ex ragazzi della parrocchia, Pino Carà e Giovanni Serio (che dovevo scoprire essere stato mio alunno, inizi anni ’60, durante una supplenza) che vennero a trovarci con le loro famiglie e che ci invitarono a pranzo. Spesso Saro, suo “fratello gemello” (così li chiamavano), prendeva in mano gli album (ce n’erano una decina) delle fotografie, dei fratelli , dei nipoti, delle gite parrocchiali… , che don Pino aveva con pazienza ordinato, e me le mostrava: ”questa è quando è venuto a Santena l’anno del cinquantesimo di sacerdozio…”; “ qui è quando è venuto in Italia nostro cugino dall’America…”..” Questa casa - aggiungeva - sarebbe stato desiderio di mio fratello restaurarla e metterla a disposizione dei nipoti tutti per quando avessero voluto venire a trascorrere qualche giorno al paese dei loro avi…, mi piacerebbe realizzare quel sogno”. Don Pino ricorreva continuamente nei nostri discorsi; era come se fosse con noi.
All’aeroporto di Catania, ci accolse Franco Siciliano, Ciccino, col sorriso che ha conservato sin da quando bambino raggiungeva il suo papà, da casa sua di fronte, al Circolo di cultura “V. Guarnaccia”, e ci salutava. Amico per disposizione d’animo (da tutti conosciuto, non ci sono persone in paese che egli non conosca a sua volta), Franco, benché fosse ancora lontano da li tri bbintini e ddeci, che quasi tutti della comitiva abbiamo superato, fece parte del gruppo degli “amici di sempre” - “amici per sempre” e per tutto il periodo del soggiorno fu il nostro angelo custode: ci lasciavamo la sera per ritrovarci il mattino quando lui arrivava in Via Nazario Sauro, dalla sua casa di Piazza V.E., e noi l’aspettavamo per il caffè. In tre ci muovevamo come un corpo solo e lui ne era il motore, non solo metaforicamente: sicuro e prudente nella guida, sempre pronto e premuroso, con la sua Opel stagionata risolvette ogni esigenza di spostamento dentro e fuori Pietraperzia.
Fin dalla sera del nostro arrivo al paese fummo ospiti a cena  della famiglia di Lillo e Giannina Maddalena. L’invito si estese ai giorni successivi e tutto avvenne all’insegna della più autentica sicilianità. Benché non avessimo avuto tante occasioni di frequentazione fui accolto nella loro casa e alla loro tavola come uno della famiglia e la loro ospitalità fu così immediata e serena che io mi sentii leggero, e senza disagio od imbarazzo, accettai le loro premure, come fossi a casa di fratelli. Alla gentilezza e finezza di modi la signora unisce grande perizia culinaria e furono primizie genuine e piatti tipici, preparati con gusto, quelli che ci offriva ogni giorno diversi: oltre ai tradizionali primi piatti, Pasta ccu li finucchjiddi rizzi e la muddica, anellini ccu la ricotta frisca, frittate di mazzareddi …, tutto quello che la cucina nostrana ha di meglio e di particolare, fino alla mousse di ficodindia, una specialità. Ascoltare Lillo che ci parlava con pacatezza e chiarezza era come ascoltare i discorsi di lu zi’ Peppi Maddalena, tanto il suo tono di voce e il ritmo richiamano la parlata di suo padre. Lillo, mentre ci riempiva i calici di Nero d’Avola, vantava la qualità del pane siciliano, pane di semola fatto di farina di grano duro e , ad una nostra richiesta circa il pane integrale oggi molto diffuso ci spiegava, da esperto, che dai filtri di diversa gradazione usati nella molitura del grano si ottiene la farina per il pane integrale e non dalla mescolanza di farine con crusca come è, spesso, quello in commercio. Di fronte alla coppia così affiatata, spontanea mi veniva in mente quella pillola di saggezza degli antichi “Nuddu si piglia si nun s’assumiglia.
I momenti in cui mi allontanai dal gruppo fu per rispondere ad altre esigenze affettive che mi chiamavano. Parenti stretti, altri amici, i miei figliocci. La dolcezza e l’amabilità di quegli incontri conservo nel mio petto. Una capatina in solitaria, non potei esimermi dal fare in via 4 novembre, (ma la curiosità mi spinse anche nelle adiacenti “vie dell’infanzia”) che attraversai per tutta la sua lunghezza dalla via La Masa all’incrocio con la discesa Rosolino Pilo; unico e solo passante con i miei pensieri le attraversai quel pomeriggio. Fu grazie a Biagio Messina (da quando ci siamo ritrovati, nel 2005, considero Biagio e la sua sposa Filippina miei figli adottivi e mia nipotina la piccola Sara), che riuscii, dopo il pranzo di San Vincenzo, ad andare a trovare, ad Enna, don Filippo Marotta, nella sua Parrocchia di San Tommaso Apostolo, che ancora non conoscevo. Lo ringrazio pubblicamente per l’interessante “Antologia delle tradizioni popolari, degli usi e dei costumi, delle espressioni dialettali e degli autori di opere in vernacolo di Pietraperzia” che ci ha regalato.
La mattina di martedì 17 aprile, pronti per ripartire, mentre Franco al furgoncino di un ortolano che sostava all’incrocio di via Stefano Di Blasi con via Sabotino, stava comprando mazzareddi e cicoria di campagna da portare alla sua mamma a Catania, avemmo la fortunata occasione di salutare ancora una volta i coniugi Maddalena che tornavano già dalla campagna e Peppino Rabita che invece vi si stava recando. All'aeroporto di Catania, l’aereo della Wind-jet che da Torino ci aveva fatto partire dopo due ore e più dall’ora prevista, questa volta fu puntualissimo. Un ritardo analogo sarebbe stato oltremodo gradito.




Ritorno nel grembo materno

(dedicata ai coniugi Giannina e Lillo Maddalena

Maestoso
si erge Mongibello
e spande sulla piana riflessi azzurrini.
Balsamo al mio cuore
attorno si diffonde
l’aroma di zagara e di eucalipto
di questa terra di miti.
Mi accoglie
con l’abbraccio di vecchia nutrice
la puntara di li Minniti;
vigile mi sorride la rocca di Petra.

Le strade che percorro
ancora conservano impronte.
che non ignoro,
facile si aprono un varco
e prendono corpo
echi di ricordi lontani.
Rivivono atmosfere passate
nelle oneste premure degli ospiti
e in queste nostrane primizie
con cui fanno tutt’uno:
frutto di avita cultura.





13 marzo 2019

Una grande rimpatriata



Mentre dal trenino della linea Lanzo- Ciriè-Torino, che mi riporta a casa dall'aeroporto di Caselle dopo il soggiorno a Pietraperzia, vedo in lontananza la famosa Basilica che si erge sulla collina di Superga, ho la sensazione di non avere mai fatto questo viaggio. Eppure, anche se per lo spazio di un più lungo week-end, ero stato al mio paese, rivisto gli amici e i luoghi dei primi affetti. Pochi giorni volati come un lampo, ma ne ritornavo gratificato e arricchito. Com'è strano, pensavo: quando eravamo bambini e non vedevamo l’ora che arrivasse il giorno della realizzazione di una promessa fattaci, ci sembrava che il tempo non passasse mai; ora abbiamo l’impressione che una cosa, un progetto, un evento l’hai appena immaginati che sono già realizzati e passati… e la cosa ti lascia l’amaro in bocca. “Presto giunge e passa il dì festivo”. Man mano che gli anni avanzano ci si rende conto che nel troppo breve spazio di tempo che ci è concesso dobbiamo cercare di concentrare un ampio spazio di aspettativa e di speranza: vivere intensamente in una settimana la vita di un anno. Così è stato per questa grande rimpatriata. Programmata e organizzata da Giovanni Culmone l’idea era stata accolta con entusiasmo da tutti, quanti parecchi anni addietro eravamo stati compagni di giochi, di scuola, di collegio o di istituto scolastico, colleghi, …legati comunque da amicizia. Tutti avvertivamo il bisogno di rivederci, più volte ce l’eravamo detto nelle ricorrenti telefonate, aspettavamo che qualcuno di noi prendesse un’iniziativa stringente. Così quando ci arrivò la email o la telefonata di Giovanni l’invito suonò come una “proposta che non si poteva rifiutare”. L’adesione fu immediata in qualunque posto d’Italia ci trovassimo, nelle più vicine città della Sicilia, in Lombardia, in Piemonte o a Cividale del Friuli. Arrivammo alla spicciolata. Alcuni, considerando che la data programmata per l’incontro capitava pochi giorni dopo le feste pasquali, giunsero al paese prima del venerdì santo per partecipare alla processione di “Lu Signuri di li fasci” e alle altre, non meno suggestive, che completano le solenni celebrazioni della Pasqua pietrina; altri il giorno prima della data prevista, altri ancora lo stesso giorno per trascorrere anche solo poche ore con gli amici e ritornare la sera stessa al luogo di residenza; con alcuni, dei quali le circostanze non furono favorevoli alla partenza, condividemmo la delusione di rimandare ad altra occasione il piacere di rivederci.
“L’adunata generale” era prevista sul sagrato del Santuario della Madonna della Cava ma a causa del pomeriggio freddo e ventoso gli incontri avvennero per lo più all'interno del santuario e in sacrestia. Gaetano Milino, mano a mano che entravamo in chiesa, andava registrando i nostri nomi sul suo taccuino di reporter. Fu affettuoso ed emozionante l’abbraccio tra chi non si vedeva da più di cinquant'anni. In qualche caso il riconoscimento non fu immediato ma, superato il dubbio grazie all'accenno di un minimo indizio, fu motivo di un ulteriore più sentito abbraccio. La lontananza e il tempo se avevano in parte modificato qualche tratto del viso non avevano affievolito, anzi rinforzato, il reciproco affetto. La Santa Messa, celebrata da monsignore G. Bongiovanni, anche lui uno di noi, fu seguita con raccoglimento e partecipazione. Letta per tutti da Giovanni Culmone, con grande commozione facemmo nostra la preghiera alla Madonna della Cava, del compianto Angelo Giadone, in cui non mancava il ricordo degli amici che ci hanno preceduto nella casa del Signore. Attraverso la strada tra gli uliveti raggiungemmo, dopo la Messa, la villa di Lillo Speciale dove, a gruppetti intercambiabili, proseguivano tra gli “amici di sempre” i racconti vicendevoli di eventi della vita e la presentazione delle signore di alcune delle quali se ne erano, molti anni prima, conosciuti i nomi dai biglietti di partecipazione al matrimonio. Mentre i padroni di casa si prodigavano a servire stuzzichini, tartine, brut dolci e strasecchi, aperitivi vari e grappe invecchiate, Filippo Viola ci divertiva raccontandoci episodi curiosi del tipico ambiente popolare palermitano che trasformava in vere e proprie barzellette. Filippo ci ricordava anche che cu veni a lu pajisi e nun-parla pirzisi, cci perdi la facci e cci appizza li spisi”. Lasciata Villa Speciale la compagnia si trasferì al Belvedere, nella parte alta del paese dove un ampio spazio, una volta sede di sterpaglie e dirupi, era stato trasformato in passeggiata panoramica che amplia e valorizza l’area turistica del Castello. Il Belvedere si affaccia, infatti, sulla Riserva Naturale della Valle dell’Imera (territori di Caltanissetta Enna e Pietraperzia) tra le più importanti della Sicilia, e ne consente una splendida vista. Il freddo qui era più intenso che nella Pietraperzia Bassa. Solo un’occhiata rapida potemmo rivolgere verso le luci accese di Caltanissetta per rifugiarci all'interno del locale ristorante dove eravamo attesi per la cena conviviale. Per il gruppo della storica rimpatriata il menu appositamente preparato prevedeva pietanze delle tradizioni culinarie pietrine; sensazioni di tempi passati evocavano soprattutto i primi piatti: cavati ccu li finucchjiddi rizzi e la ricotta frisca, pasta ccu li favi nuveddi…   Il vento nordico che spirava all'esterno non era avvertito all'interno dove il calore della gioia di stare insieme era palpabile. Nel corso della cena Gino Palascino volle informarci su come, durante uno dei suoi mandati di sindaco, era sorto il Belvedere. Interpretando, con una certa forzatura, come larvata disponibilità al finanziamento alcune parole del ministro dei LLPP dell’epoca, Prandini, in visita a Pietraperzia, egli era riuscito ad ottenerne una esplicita promessa, poi mantenuta, che aveva consentito la realizzazione dell’opera. Gianni Culmone, entusiasta per la riuscita della sua iniziativa, ringraziava tutti e per rimarcare il carattere di piena “pirzisità” dell’evento invitava gli autori, Filippo Viola e Salvatore Giordano, a recitare le due poesie in dialetto “Lu torcicuddu” e “Littra a lu me pajisi”. Ci si salutò all'interno del locale, alcuni dovevano fare ritorno in serata al luogo di residenza, Catania, Enna, Caltanissetta, tra tutti la promessa di non far trascorrere più tanto tempo al prossimo incontro. 


Salvatore Giordano





I nomi dei partecipanti alla rimpatriata :
Giuseppe Bonaffini, Antonino Calì, Rosaria Candolfo, Francesca Cilano, Giovanni Culmone, Diego Di Marco, Filippina Emma, Giuseppe Fallica, Filippo Falzone (alias Alberto Adamo), Totò Falzone, Maurizio Fiandaca, Lilia Filetto, Concetta Giglio,
Salvatore Giordano, Gisella Lamia, Antonietta Lipani, Costanza Messina, Filippo Messina, Enzo Paci, Vincenzo Paci, Luigino Palascino, Isabella Panevino, Ciccino Siciliano, Rosario Siciliano, Lillo Speciale, Filippo Viola, Pino Viola, Vincenzo Viola, Francesco Zappulla, Maria Zappulla, Salvatore Zappulla.
Il ringraziamento di Culmone agli amici è stato esteso “come se fossero presenti”, ai cappuccini:
Padre Gaudenzio, Padre Celestino e Padre Cosimo.




16 febbraio 2019

Via 4 Novembre e dintorni: La casa – 2^ Parte


La casa di Via 4 Novembre                                                                           
La posizione della nostra casa ci offriva anche la possibilità di un altro tipo di spettacolo: dalla finestra che dava sulla discesa Rosolino Pilo, dopo fortissimi temporali vedevamo scendere, sbalorditi, grossissime piene di acqua sporca accompagnate da un rumore assordante. La piena che, partita da via Ville, si ingrossava man mano che scendeva verso il basso, ricevendo altra acqua e altra sporcizia dalle strade laterali come un fiume dai suoi affluenti, all’altezza del nostro incrocio copriva, alta una spanna, tutta la larghezza della discesa e proseguiva, ingrossandosi ancora, sino a lu Vaddùni dove, in questi casi, alcune abitazioni venivano allagate. La grossa fiumara nella sua furia trascinava a valle non solo lo sporco delle strade ma anche cufinati di ogni genere di immondizia che la gente, lungo il percorso, affidava alla piena: era abitudine diffusa, infatti, in quelle occasioni, ripulire stalle e paglialori. Di temporali se ne scatenavano di molto violenti, con lampi e tuoni da scuotere le ossa e da essere motivo di serie preoccupazioni, specie se nei periodi di raccolto. Allora vedevamo la mamma prendere la corona del rosario e recitare, con molta partecipazione, tra le altre, la preghiera che chiamava “Lu Verbu”:

Lu Verbu sacciu e lu Verbu haju a ddiri
Lu Verbu ca nni lassà nostru Signuri
Quannu acchjanà la cruci ppi muriri
ppi sarvari a nuantri piccatura.
O piccatura, o piccatrici
viditi quant’è ranni chista cruci
ca teni un vrazzu ‘n cilu e nantru ‘n terra
sinu a la vadda di Giosafat
picciddi e ranni amma essiri ddà
Scinni la Matri SSanta ccu lu libbru a li manu e chi dirà?
«Figliu li pirdunasti li Jiudija
Accussi ha ppirdunari li figliuli mija»
«Matri ji nu li puzzu pirdunari
Ca sunu tutti piccatura assai,
sanu lu Verbu e nu lu vunu diri
ntre li vampi e la pici han ‘a –ccadiri»
Cu nu lu sapi si lu fa’ nsignari.
Cu lu dici tri- bboti ‘n capizzu
Je scanzatu di trimulizzu;
Cu lu dici tri-bboti la notti
Je scanzatu di mala morti;
cu lu dici tri-bboti  a la via
l’accuppagna la Vergini Maria;
cu lu dici tri-bboti ‘n campu
je scanzatu di trona e di lampu.

Ma era spettacolo altrettanto bello, dopo la calata di la chjina, vedere l’acciottolato lucido della discesa brillare sotto il sole improvvisamente comparso. Per alcuni giorni la strada appariva pulita, ma restavano evidenti i segni del suo passaggio: sterpi, paglie, stracci appiccicati  alle grate dei dammusa e ai muri delle case.
Il crocevia Rosolino Pilo/via 4 Novembre era però compreso nell’itinerario della via di li Santi, e questo fatto, secondo la nostra percezione, gli conferiva una certa importanza. Da qui passavano tutte le processioni delle feste religiose, qui sostava, per alcuni minuti, lu Signuri di li fasci, la processione del Venerdì Santo, la più suggestiva, sentita ed emozionante del nostro paese, dopo che, svoltata da via Garibaldi, aveva percorso quel centinaio di metri di discesa sdrucciolevole prima di raggiungere il Corso Umberto[1]


A la Strataranni il percorso diventava pianeggiante e lineare, allora l’imponente corteo si snodava in tutta la sua lunghezza e si potevano contemplare in un’unica visione i tre simulacri: il colle imbiancato del calvario, lu Cravaniu, sormontato dal Crocefisso sul globo policromo, Cristo morto nell’urna e la Madonna Addolorata piangente, avvolta nel suo manto nero, portata a spalle dalle donne cattoliche, ciascuno preceduto dai devoti incappucciati delle confraternite, seguiti da bande musicali e da una moltitudine di persone in preghiera, comprese quelle delle famiglie di recente lutto.
Per il passaggio di Lu Signuri di li fasci si rendeva necessario rimuovere li curdìni, quei fili tesi da un balcone all’altro delle case di fronte, utilizzati per stendere il bucato. Era incombenza di papà slegare, qualche giorno prima del venerdì, il filo che univa trasversalmente il nostro balcone a quello di casa Nicoletti, situati ai due angoli opposti dell’incrocio; arrotolato a mo’ di grosso bracciale restava attaccato al balcone di donna Caterina per circa quindici giorni. La curdìna veniva ripristinata dopo il passaggio della processione della festa di San Vincenzo Ferreri, che veniva celebrata una settimana dopo Pasqua.
La giornata del Venerdì santo, fulcro della settimana santa, veniva vissuta a Pietraperzia secondo le tradizioni tramandateci dai nostri avi, che prevedevano il divieto di usare forbici e attrezzi taglienti, martelli e di piantare chiodi, e caratterizzata da pratiche di penitenza e mortificazione. Era consuetudine della nostra famiglia, e ad essa fummo abituati fin da bambini, osservare quel giorno il digiuno come quella di compiere, la sera del giovedì santo, il giro delle cinque chiese per la visita a li Sapurca, assieme ai nostri genitori. Ma i comportamenti di tutta la settimana erano ispirati da parte dei credenti pietrini ad una profonda mestizia, come sottolineavano le stesse preghiere di la Simana santa, che invitavano a meditare sul mistero della Passione di Cristo; preghiere che la mamma ci intonava invitandoci ad ascoltare e a ripetere con lei:

Accuminzammu di lu Santu luni,
na jurnatedda benigna e murtali.
L’armuzzi santi stanu a nghinucchiuni
prigannu nostru Ddì celestiali.
………           ………..
Si vu’ lu Paradisu o piccaturi,
ti cci’ ha addurari li so cincu chiaghi.
….   ….    ….
Di venniri murì nostru Signuri
Ntre un trunculu di crucci assai pinnenti
Tri chiova furu li primi dulura
E la cruna di spini trapungenti.[2]

Con il ritorno in paese ebbero fine le vacanze in campagna e con esse i giochi all’aria aperta: rincorrere le farfalle, stanare le lucertole, fare la marmellata schiacciando i fichi sulla mattonella, preparare i biscotti pasticciando con la farina, partecipare all’impastata del pane per farci fare da zia Mariù la fuata a ffacci di vecchia.  Cessarono le esplorazioni attorno a la puntara  in cerca di cchiappari e origano, le  arrampicate sugli alberi, la ricerca dei nidi, il perdersi nell’ammirare meravigliati, nelle ore più calde della giornata, lo spettacolo dei falchi che, libratisi nell’aria volteggiavano leggeri sullo sfondo della volta azzurrissima del cielo o si lasciavano cullare dal vento, simili ad aquiloni tenuti da un filo invisibile. Finirono anche le entusiasmanti escursioni al Salso, tutte le volte che lo zio Biagio ci portava con sé a raccogliere li pumadoru, li milinciani, li pipi e li muluna di χiauru che coltivavamo nell’orto della piana. L’invito era accolto con grida di gioia perché potevamo avvicinarci al fiume vedere l’acqua scorrere lenta pulita e trasparente, sperare di vedere sgusciare veloce qualche anguilla. Al fiume ci piaceva giocare coi grossi ciottoli neri e levigati; lucentissimi mentre erano ancora bagnati, tolti dall’acqua presto si asciugavano perdendo la loro brillantezza, e apparivano opachi e coperti da una polverina bianca. Noi ne prendevamo alcuni di varia grandezza e ce li portavamo a casa, ci attraeva la loro forma rotonda e liscia; li usavamo per schiacciare le mandorle.
Era però altrettanto appagante, in paese, andare a trovare i nonni. Tutti i pomeriggi, salvo imprevisti, eseguiti i compiti scolastici, ci trovavamo tutti a casa loro in Via Ville Superiori. Lì trovavamo le cugine Antonietta e Rocca, Totò, Maria e Vincenzina, figlie della zia Lucietta, le cui abitazioni sorgevano a poca distanza da quella dei nonni. Nonna Nina, che attendeva il nostro arrivo, aveva predisposto le tasche della sua lunga gonna nera riempiendole di leccornie, come biscottini a forma di animaletti, i famosi nnicchinnà: con gesto improvviso, che chiamava l’ammuccata, ce li cacciava in bocca al momento di salutarla; li muscardini sicchi, dolcissimi, che sgranocchiavamo con avidità. Canestrate intere di moscardini freschi e morbidi non mancavano comunque mai a casa della nonna, che ne era abilissima confezionatrice. Nelle capienti tasche del suo grembiule trovavano posto anche i ceci tostati, li ciciri callijati, che lei stessa preparava, di cui eravamo pure molto ghiotti. In una grossa padella posta sul fuoco, contenente già della sabbia di fiume, metteva i ceci sbollentati che, a contatto con la sabbia sempre più calda, man mano che la nonna li rigirava con un lungo cucchiaio di legno, prendevano quel colore tipico tra il bianco e l’avana. Quando, a suo parere, i ceci avevano preso la giusta tonalità, versava il contenuto della padella in un setaccio e, fatta cadere la sabbia, restavano i ceci tostati, coloriti e friabili, che travasava in un panierino di paglia intrecciata, con il fondo ormai sfilacciato e bruciacchiato. I ceci ci piacevano anche verdi; grosse bracciate di piante con i semi attaccati ne portava tante volte lo zio Francesco dalla campagna. Ceci tostati venivano venduti sulle bancarelle della frutta secca, soprattutto nel periodo natalizio, ma non avevano niente a che vedere con la friabilità, la freschezza e la bontà di quelli preparati dalla nonna. Ancora oggi i ceci tostati si trovano anche nei mercati rionali di Torino, in sacchetti o sfusi venduti a peso: «Quando vado al mercato» dice Maria «mi lascio attirare e ne prendo qualche bustina, li offro alle mie sorelle e agli amici che vengono a trovarmi e che volentieri li accettano come occasione di ritorno a vecchie sensazioni e ad allegri e nostalgici commenti».
Andando dalla nonna conoscemmo molte persone che non sapevamo fossero nostri parenti. Di parenti i nonni ne avevano tanti, sparsi nei diversi quartieri del paese; in molti venivano a trovarli di proposito o passavano a salutarli trovandosi nei dintorni di via Ville Superiori per i loro affari. Se ci fosse stato un dubbio su qualche persona di cui si stava parlando, la nonna lo risolveva subito: la persona in causa era ma cuscina Giuannina o ma niputi Cuncittina o ma cummari Filippa. E se uscivamo con lei era la stessa cosa, tutte le persone che incontravamo la salutavano: bongiornu cuscina Nì o  ssa bbanadica zi’ Nì, se era una persona giovane; e magari si fermavano a raccontarsi le ultime reciproche vicende familiari. Ed io spesso, continua Maria:
- «Ma mamma Nì, cu jera ssa fimmina ca t’ha ssalutato ora ora?»
- «Bbi’ Mariuzzè,… ma figliozza Catarina, figlia di ma cummari Maracava la Campanedda». (continua)

Maria e Salvatore Giordano




[1] Cf.  Filippo Marotta, La Settimana Santa e la Pasqua a Pietraperzia, p. 94: nella fotografia, “lu Signori di li fasci” in processione nella discesa Rosolino Pilo, di epoca successiva ai nostri ricordi, il corteo ha raggiunto proprio il nostro incrocio. I balconi che si vedono sulla sinistra appartengono alla casa, ristrutturata, che era stata della signora Ada Callari; sulla destra i muri prospicienti il corso Umberto della casa che fu di donna Caterina Nicoletti.
La foto di Antonio Caffo in questo articolo non è la foto citata dagli autori.

[2] Quelle preghiere troviamo ora in La Settimana Santa cit., p. 131




05 gennaio 2019

Via 4 Novembre e dintorni: C’era una volta – 1^ Parte

C’era una volta la casa di via 4 Novembre


Trascorso il periodo della guerra e cessati i pericoli, con la liberazione dell’isola da parte delle forze alleate, tornammo in paese nella nostra casa di Via 4 Novembre. Noi abitavamo al civico n° 72 della via prima parallela a nord del Corso Umberto I, la strataranni.
Dedicata com'è alla data della vittoria della I Guerra Mondiale, la Grande Guerra (1915/1918) che completò l’unificazione dell’Italia, la via 4 Novembre ben si inserisce, e ne costituisce coronamento, nel gruppo di strade della zona intitolate ad eventi e personaggi della storia patria, siciliana e pietrina. Essa si estende, infatti, da via Giuseppe La Masa alla Discesa Leone, per tutta la lunghezza del più noto corso di lu ringu di sutta. La via Tortorici Cremona la separa dalle vie Garibaldi e Capitano Bivona; è attraversata dalla discesa Giovanni Corrao e, a poco meno della metà del suo percorso, incrocia la discesa Rosolino Pilo, perpendicolari al corso Umberto. Esattamente a quell’incrocio sorgeva (e sorge ancora, abitata da altri) la nostra casa. L’abitazione, che era composta dalla parte anteriore ristrutturata del piano terra e dal piano superiore dello stabile che era stato lu tarpitu della famiglia di papà, ne formava l’angolo, la cantunera nord/ovest; mamma e papà vi andarono ad abitare subito dopo il loro matrimonio. In quella casa di via 4 Novembre ebbe inizio la vita di noi, quattro figli; è lì che abbiamo trascorso la nostra infanzia e parte della giovinezza, fino agli inizi degli anni ’60 del ‘900.
La casa aveva un balcone sopra l’entrata dell’ex frantoio e una finestra che dava sulla discesa Rosolino Pilo, ma non aveva sbocco sulla via Tortorici Cremona, lu ringu di ncapu. Da quel lato confinava con l’abitazione della famiglia di Antonino Pagliaro, sposato con la signora Maria Matanza. Lu massaru Ninu coltivava le sue terre assieme al figlio minore Giuseppe; Santo, il figlio maggiore, si occupava di edilizia, campo in cui era diventato un esperto capomastro; Maria Anna, Mariannina, la figlia femmina, faceva la maestra. Attraverso la parete nord, che divideva la nostra casa da quella dei Pagliaro, sentivamo ogni parlottare e ogni minimo movimento provenienti dalla loro casa. Spesso, bambini curiosi, appoggiavamo l’orecchio al muro per indovinare dal rumorino che avevamo udito a chi della famiglia poteva attribuirsi. Mariannina sposò Salvatore Marotta, lu Cacucciularu, allora, e per molti anni, custode del cimitero. Da tutti, in paese, era chiamato Sarvaturi e nominarlo evocava la sua funzione. Alto e di bell’aspetto, baffi e pizzo pronunciato ben curati, una certa ricercatezza nell’abbigliamento (cappello nero a larghe tese ed eleganti abiti scuri di sartoria), il portamento serio e distinto erano tutti elementi che abbinavamo al suo ufficio e che ce lo facevano percepire come personaggio dotato di particolari poteri e guardare con una certa apprensione.
Di fronte alla nostra, la casa abitata dalla vedova signora Ada Callari costituiva l’angolo sud/ovest dell’incrocio. L’angolo opposto, la cantunera a sud-est, era formato dalla casa dell’antica famiglia Nicoletti, abitata da donna Caterina, ultima discendente del casato, signorina avanti negli anni che vi viveva da sola. Alla porta della casa di donna Catarina si arrivava dopo aver salito i gradini di un alto ed ampio ballatoio protetto da una ringhiera di ferro e, superata quella, situata sullo stesso ballatoio, della casa della famiglia di Vincenzo Di Romana sposato con Vincenzina Lo Presti, noti in paese come li Vinci.
L’angolo nord-est, di fronte a donna Caterina Nicoletti, era costituito dalla casa di don Filippo Rabita, don Filippu Pruni, noto maestro falegname, che vi abitava con la moglie, signora Giuseppina Aiesi, e con i tre figli, tra i dodici e i quindici anni di età all’epoca della nostra nascita: Vincenzo, Giuseppe e Piera, Pitrina.
Gli abitanti delle case di quell’incrocio furono i nostri vicini più prossimi, quelli che, per la vicinanza, vedevamo quotidianamente e con i quali più frequenti erano le occasioni di incontro. Nel numero rientrano pure i componenti della famiglia del dottor Vincenzo Vitale, la cui abitazione confinava con la nostra dal lato ovest: sulla via 4 Novembre si affacciavano i due balconi della casa, ma l’ingresso si apriva sulla via Tortorici Cremona.
Tanti ricordi della nostra vita di allora sono legati a quella via, alle strade vicine, alle persone che vi incontrammo e conoscemmo. Di quell’incrocio sentiamo i rumori, gli odori, le voci. Lo scalpitio dei muli dei contadini che di buonora transitavano per la discesa Rosolino Pilo per recarsi in campagna; il crocevia disseminato di una infinità di neri “confettini” e il lezzo penetrante che, poco più tardi, impregnava l’aria dopo il passaggio del capraio che tutte le mattine portava il latte alle clienti. Esse lo aspettavano sulla porta ccu la cicara mmanu ed egli la restituiva piena del bianco e nutriente liquido ancora fumante, munto direttamente dalle capre che si portava appresso; il vociare dei ragazzi che passavano da un gioco all’altro tra innocenti litigi; il gridare delle madri che si affacciavano e continuavano, non udite, a chiamarli quasi a squarciagola; lo starnazzare delle galline disturbate, nel loro pacifico razzolare, da qualche improvviso rumore; il richiamo degli ambulanti venditori di merce varia; il grido del banditore, Micheli l’urbu, che, fermo al centro dell’incrocio, lanciava il suo avviso o annunciava la novità:
O figliuli,
ad-ha arrivatu lu pisci friscu,
trigli mirluzzu picaredda, sardi…
va iti a la piscarija…;

o figliuli …
cu- ha ttruvatu na mula
ca jè di
va purtaticcilla ca c’è lu viviraggiu; …
e mamma a ripeterci quel curioso annuncio che le era rimasto in mente da quando glielo avevano raccontato:
O populu di Summatinu,
cu ha ttruvatu un papì masculu
ca jiera di li Chinnici
ca havi tri ghiorna ca la criat’è sutta.
“O popolo di Sommatino, chi ha trovato un tacchino (sappia) che era di proprietà della famiglia Chinnici; ora son tre giorni che la serva (accusata del furto) è in prigione”
La via 4 Novembre era una strada allietata da un gran numero di bambini e bambine. Quel tratto di strada, allora in terra battuta, tra l’incrocio con via Rosolino Pilo e Discesa S. Orsola, molti ne raccoglieva di tutto il vicinato, perché ben si prestava ai giochi di femmine e di maschi: a li cchiè, a li rrummula, a li castedda, a la stacca, a li petri, a la fussetta. Era un cinguettio continuo, che poteva anche dar fastidio a persone anziane meno tolleranti nei confronti dei bambini, specie in certe ore della giornata. E mentre tra le bambine l’idillio era quasi perfetto, tra i maschietti piccole baruffe avvenivano per questioni legate al gioco, fino a sfociare, qualche volta, in vere e proprie liti. E tuttavia mai tra le mamme ci furono discussioni, dal momento che nessuna di esse fu mai indulgente nei confronti del proprio figlio, né intervenne a prenderne le difese. Capitava che si affacciassero alle finestre all’udire il clamore della lite o al pianto, ma le loro parole erano: «Cosi di carusi su, vinu l’anni e mintinu li sinzii, cresceranno, capiranno». E ciascuna richiamava il proprio figlio. Del resto, passata la buriana, i ragazzi erano di nuovo insieme a giocare, dimentichi di tutto.
All’astricu della casa di Vincenzo e Vincenzina Di Romana, genitori di Masinu e Lina, di qualche anno più piccoli di noi, seguivano due piccoli ballatoi, du’ tucchineddi, a breve distanza l’uno dall’altro, alti poco più di un metro, con quattro-cinque gradini e privi di ringhiera: appartenevano alle abitazioni delle famiglie di Rocco Zappulla, Roccu Zzappudda, e di Giuseppe Emma, Pippinu Palazzu. Il primo era sposato con la signora Giovanna Di Gregorio, la zi’ Giuannina, della numerosa famiglia di li Mazzariddi (o li Cilij), sorella di nostra zia Damiana madre di Pasqualino; il secondo con la signora Concetta Barrile, Cuncittina la Padedda. Appresso veniva il portoncino della casa della famiglia di Nunzio Pace. Tra i quattro Zappulla, Totò, Nino, Paolo, Antonietta, altrettanti dei Pace, Vincenzo, Pino, Anna, Rocco, e due della famiglia Emma, Filippina e Sebastiano, erano altri dieci bambini che gravitavano attorno a quelle centinaia di metri quadrati di terra vicino al nostro incrocio. Ad ovest, accanto alla casa della signora Callari, abitava la famiglia di Paulu Vavaluciu e Mariuzza la Buttafoca, Paolo Corvo e signora Maria Buttafuoco, famiglia che nel corso degli anni raggiunse i dieci componenti: genitori e otto figli di cui i maggiori, all'incirca della nostra stessa età, furono i primi nostri compagni di gioco e di litigate. Tre maschi, Salvatore, Pino, Pasqualino; tre femmine, Costanza, Filippina e Agatina, a cui si aggiunsero i gemelli Michele e Vincenzo. «Fu soprattutto con Totò Zappulla, Vincenzo e Pino Pace e spesso anche Rino Mendola (nipote del dottor Vitale) ed altri ragazzi della zona», dice Salvatore, «che mi trovavo a giocare tra gli altri a li castedda, e a scinni scinni rininedda[1], giochi che ricordo come divertenti e impegnativi, in cui mettevamo tutta la nostra anima per eseguirli nel rispetto delle regole e dei ruoli che definivamo dopo una serie di discussioni. Come tra gli adulti, gli inevitabili diverbi sorgevano quando c’era da attribuire la responsabilità della sconfitta della squadra, ma venivano presto risolti per riprendere subito il gioco».
«Con Anna Pace», dice Maria, «non ricordo di aver diviso tanti momenti di gioco, ma tra noi c’era una sincera amicizia; frequentavamo l’Azione cattolica e spesso facevamo assieme la strada per raggiungere la Parrocchia così come anche la domenica per recarci a Messa. Eravamo due donnine e spesso aiutavamo in casa. Le nostre mamme si stimavano a vicenda, si chiamavano cugine e lo erano realmente: la madre di Anna, zia Maria Balestrieri, era nipote di nonno Pasquale; suo padre era figlio di Giuseppina Costa che, vedova Balestrieri, aveva sposato in seconde nozze Calogero Messina, nostro bisnonno materno».
Fu in quella strada polverosa che insieme ai compagni di gioco apprendemmo concretamente le prime regole del vivere sociale e si stabilirono rapporti di amicizia che ci consentirono, dopo che ciascuno col tempo aveva preso la propria direzione, di riconoscerci e definirci, nella “grande rimpatriata” dell’aprile del 2012, “amici di sempre”, “amici per sempre”.
Molta tristezza suscita vedere ora quelle strade deserte e silenziose a tutte le ore del giorno; e molti pensieri attraversano la mente di chi le ha vissute in momenti in cui gioia, allegria, vivacità di bambini e via vai di adulti predominavano. Pavimentazioni rifatte con pietra di Catania, pulite ma ciuffi di erba vi crescono ai bordi e tra gli interstizi dell’acciottolato; moderni lampioncini ad applique ai muri delle case di Via Garibaldi, della discesa Rosolino Pilo; case ristrutturate fornite di nuovi portoncini, anche eleganti, accanto ad altre coi muri scrostati, le serrande e i segni della loro vetustà. Ma tutte porte chiuse, non una finestra aperta, non una donna al balcone a stendere panni, non un bambino per la strada. La casa della nostra infanzia aveva già subito un primo intervento di cui presentava le tracce nelle porte esterne sostituite, nei muri ritinteggiati e soprattutto nel balcone con ringhiera di ferro che la circondava per tutta la sua estensione sino a dopo l’angolo con la discesa Sant'Elia. Una tenda da sole vi era stata montata sopra la porta finestra. Ma nessun segno di vita come in tutte le altre. Vi avessi scorto una presenza umana avrei chiesto di entrare: mi sarebbe piaciuto verificare quali modifiche vi erano state apportate all'interno. (continua)

Maria e Salvatore Giordano
[1] Vd. la voce rininedda sul Vocabolario Siciliano cit.



02 ottobre 2018

Via 4 Novembre e dintorni: Govanni Corrao, chi era costui? – 4^ Parte





Govanni Corrao, chi era costui?


La perpendicolare alla via 4 Novembre tra le discese Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa è intitolata a Giovanni Corrao.
Fino a non molto tempo fa, di fronte a questo nome ci siamo trovati come don Abbondio davanti a quello di Carneade: una personalità celebre del nostro paese? Un personaggio storico? Ma chi? Quando? Perché? Né i conoscitori delle cose del nostro paese avevano una risposta. Di lui non parlano i libri di storia comunemente in circolazione, né il suo nome compare nei repertori storici correntiAd uno stesso, unico Giovanni Corrao dedicano poche note l’EGM (Enciclopedia Generale Mondadori), la Nuova Enciclopedia Universale Rizzoli La Rousse e l’enciclopedia libera Wikipedia la quale cita come fonte una scheda che l’Archivio Biografico di Palermo ha dedicato allo stesso personaggio: G.C., Palermo 1822-1863, patriota e uomo politico, esiliato dai Borboni ed attivo nei moti siciliani, generale di Garibaldi, assassinato per motivi politici. Ma il nome di G. Corrao raramente compare nello stradario delle nostre città; pochissime quelle che gli hanno intitolato una strada (Pietraperzia sarebbe fra le poche), benché in tutte compaiano vie e piazze dedicate (oltre che a G.Garibaldi) a luoghi e personaggi connessi agli stessi eventi storici: Calatafimi, Marsala, Nino Bixio, Giuseppe La Masa, Rosolino Pilo…A tale riguardo chiarificatrice ci è stata, recentemente, la lettura del romanzo dello scrittore agrigentino Matteo Collura, Qualcuno ha ucciso il generale, romanzo del quale è protagonista Giovanni Corrao, patriota siciliano tra i più audaci e valorosi del nostro Risorgimento, la cui vicenda è passata nell’oblio per ragioni oscure legate agli ultimi anni della sua vita e alla sua fine misteriosa[1].
Palermitano, quasi coetaneo (Palermo, 1822) dei due più noti corregionali, Rosolino Pilo (Palermo, 1820) e Giuseppe La Masa (Palermo, 1819), G. Corrao fu, come quelli, ostile ai Borboni, contro i quali diresse diversi tentativi di cospirazione, subendo prigione ed esilio. Assieme a Rosolino Pilo, organizzò gruppi di volontari a capo dei quali preparò l’arrivo e lo sbarco dei Mille in Sicilia. Combatté, per l’intera durata della campagna, a fianco di Garibaldi, distinguendosi per spirito di iniziativa, capacità militari, ardimento, tanto da essere, dallo stesso, nominato generale sul campo. Successivamente all’Unità d’Italia, venne integrato nell’esercito regio col grado di colonnello. Non condivise, però, ed avversò, la politica del nuovo governo in Sicilia, che si aspettava diversa, e si dimise per coerenza. Partecipò anche all’impresa di Aspromonte. Non è improbabile che accompagnasse Garibaldi durante il suo passaggio da Pietraperzia, nel 1862. Specie di “antigattopardo siciliano”, Corrao non aveva combattuto perché tutto restasse come prima: estremista del Partito d’Azione, fu ideatore di un vago disegno politico imperniato su una sorta di dittatura popolare. Ritenuto sovversivo e pericoloso agitatore, inviso e spiato dalla polizia, rimase invischiato in ambigue trame ordite tra notabili, mafia e autonomisti palermitani e, il 3 agosto 1863, fu ucciso proditoriamente da due colpi di lupara sparati da sicari rimasti sconosciuti, presentatisi, sembra, vestiti da carabinieri. Delitto di mafia o politico-mafioso? L’assassinio di Giovanni Corrao è sempre rimasto avvolto nel mistero, essendo andati distrutti, o fatti sparire, i documenti che lo riguardavano, come se si volesse che di lui non restasse neanche la memoria.[2] Lo scrittore siciliano, col suo romanzo, ne ha voluto riportare alla luce la vicenda. [3]. Gli stessi misteri avrebbero avvolto l’evento della fine di Salvatore Giuliano agli inizi degli anni ‘50[4]
Sulla base di tali elementi, appare evidente che il Giovanni Corrao a cui è dedicata, a Pietraperzia, la discesa perpendicolare alle vie Garibaldi e 4 Novembre, in mezzo e parallela alle vie Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa, sia il terzo dei tre patrioti siciliani, il “generale dei picciotti”in camicia rossa, eroe dimenticato dell’epopea garibaldina in Sicilia, il medesimo personaggio a cui si riferiscono le note riportate dall’Archivio biografico del comune di Palermo e dalle enciclopedie sopra citate. Riteniamo dunque che gli amministratori del nostro paese i quali deliberarono in merito alla dedicazione delle strade, a conoscenza di eventi e protagonisti, abbiano voluto, attraverso la loro scelta, onorare i tre valorosi garibaldini che tanta parte avevano avuto nell’impresa dei Mille.
Salvatore e Maria Giordano

[1] Matteo Collura, Qualcuno ha ucciso il generale, Longanesi, Milano, 2006.
[2] In una nota in appendice del romanzo, l’autore fa notare la coincidenza tra l’assassinio di Giovanni Corrao e l’uso della parola mafia comparsa per la prima volta nella commedia del 1863 I mafiusi di la Vicaria di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca. Il termine mafia viene ufficialmente usato negli atti di indagine relativi al delitto Corrao.
[3] Di Giovanni Corrao parla l’articolo Morte di un garibaldino scomodo di Rosa Faragi, Assessore alla cultura del comune di Prizzi, pubblicato su Dialogus dell’ARCI- Libera di Corleone, del 9/7/2010.
[4] Analogie, per certi aspetti, è possibile riscontrare tra la vicenda di G. Corrao e quella di Salvatore Giuliano. Vedi, tra l’altro, la ricostruzione che del colonnello dell’Evis fa Gaetano Savatteri in I Siciliani, Editori Laterza, 2005, pp.44-53.


23 luglio 2018

Testimonianze: L’insediamento delle suore salesiane a Pietraperzia




ln occasione del nostro viaggio a Pietraperzia del 2005, padre Bongiovanni, ci fece omaggio dell’opuscolo Santa Maria di Gesù. Storia di una Parrocchia in cammino, fatto stampare nella ricorrenza del cinquantesimo anniversario di istituzione della Parrocchia.
Gli articoli contenuti nel libretto ci riportarono alla memoria, con qualche punta di emozione, eventi riguardanti la storia del nostro paese che avevamo vissuto. Fu specialmente quello intitolato Le Figlie di Maria Ausiliatrice. Casa di Pietraperzia che attirò la nostra attenzione, perché avevamo partecipato direttamente alle vicende relative alle prime fasi dell’insediamento delle salesiane a Pietraperzia.
L’articolo in questione, pur con qualche imprecisione e qualche omissione, descrive l’ingresso delle suore nel loro primo piccolo “convento” e a distanza di quattro anni nella loro sede definitiva di via Marconi.
Le Figlie di Maria Ausiliatrice vennero a Pietraperzia per essere state nominate eredi del canonico Eligio Amico affinché fondassero un istituto per ragazze orfane e abbandonate.
Nel settembre del 1950 arrivarono le prime tre suore e trovarono una sistemazione in una piccola casa presa in affitto in via Garibaldi 65.
L’articolo descrive l’arrivo delle suore nella casa ancora disadorna e cita i nomi delle persone - tra le altre la signora Antonietta Cucurullo Nicoletti, le sorelle Giovanna e Giuseppina Bevilacqua - che si adoperarono con zelo nell’accoglierle, accompagnarle e agevolarne la sistemazione con la fornitura di arredi e suppellettili.
Considerata la provvisorietà e l’inadeguatezza di questa prima dimora, furono iniziate trattative da parte della Casa Madre Salesiana di Messina per l’acquisto de “lu Statutu”, come comunemente veniva denominato dai pietrini, l’attuale sede dell’Istituto Comprensivo “Vincenzo Guarnaccia”, ritenuto sede più idonea alle necessità di vita e di attività delle suore.
Unica proprietaria dell’Istituto, era la Cassa Rurale ed Artigiana “Maria SS del Rosario”; fondata nel 1908 dai sacerdoti Calogero Amico e Michele Carà.
La costruzione dell’imponente edificio, venne iniziata nel 1925, per adibirlo ad Istituto educativo e di avviamento professionale per ragazzi poveri. L’opera tuttavia non fu portata a termine a causa della morte dell’allora presidente della Cassa Rurale, il sacerdote Calogero Amico.
All’epoca dell’insediamento delle salesiane a Pietraperzia, la Cassa Rurale ed Artigiana “Maria SS del Rosario” era presieduta da nostro padre: Salvatore Giordano.


Le trattative con la Casa Madre Salesiana di Messina vennero condotte da nostro padre, assieme al Presidente delle Casse Rurali della Regione Sicilia, l’avvocato Arcangelo Cammarata, che conoscemmo personalmente per essere venuto più volte a casa nostra in quella occasione.
«Legato a quelle vicende conservo un ricordo», dice Salvatore, «che mi ha sempre accompagnato fino ad oggi. Nel corso delle trattative per l’acquisto dell’Istituto da parte delle suore salesiane, un giorno, allora poco più che decenne, mi capitò di accompagnare mio padre e il Presidente Cammarata, presso la sede delle suore di via Garibaldi. L’incontro si svolse e si concluse in un clima cordiale. Ma la cosa che mi è rimasta maggiormente impressa di quella circostanza è la lezione educativa che mi diede mio padre.
Le suore ci offrirono caffè freddo in bicchieri di vetro. Al mio turno, la suora che ci serviva orientava verso di me il vassoio in modo da indurmi a prendere il bicchiere meno pieno. Io invece, ignorando il tacito invito, presi uno dei bicchieri colmi. Mio padre che aveva seguito la scena non mancò, una volta soli, di farmi notare il mio comportamento così poco dignitoso».
Fu nostro padre che, durante un successivo incontro in via Garibaldi, vista la precarietà nella quale vivevano le suore, prima ancora che si concludessero le trattative per l’acquisto, propose una sistemazione più adeguata, offrendo loro di occupare l’edificio stesso, “lu Statutu” appunto.
Per rendere agibili alcune parti interne del fabbricato, venne assunta una squadra di muratori, capomastro il signor Vincenzo Falzone, che riparò anche il tetto della parte destinata alle suore. Giuseppe Rabita artista falegname di più generazioni seguì i lavori di sua competenza e tra i suoi aiutanti portava con sé Saro Bauccio (che poi fu sindaco di Pietraperzia) e me stesso.
Così le salesiane, usufruendo della disponibilità di nostro padre, presero possesso del fabbricato ancora prima della stipula del compromesso. Le suore apprezzarono molto il generoso gesto di cui gli rimasero sempre riconoscenti.
«L’ingresso delle suore all’Istituto», dice Maria, «fu una festa. Seguì l’apertura di laboratori di ricamo, cucito…; le ragazze che frequentavano apprendevano l’arte del ricamo a tombolo, che molte esercitarono poi come attività per guadagnare qualcosa. L’Istituto divenne l’oasi della gioventù femminile pietrina: vi si tenevano riunioni e feste com’è nello stile salesiano.
Nel seguito delle trattative relative alla compravendita furono compiuti dei viaggi da nostro padre presso la Casa Madre Salesiana di Messina; qualche volta l’accompagnò anche la mamma. Ricordo la bella amicizia che si strinse con suor Santina Pirrelli, allora Superiora della Casa di Pietraperzia, che durò sempre, la quale citava mio padre come il “nostro benefattore”».


Malgrado gli sforzi e la disponibilità, i salesiani non comperarono l’immobile. Il Rettore Maggiore dei Salesiani e altre personalità dell’Ordine, esaminando più volte l’Istituto, ritennero che fosse smisurato per le esigenze di Pietraperzia; decisero di costruire un nuovo istituto più adatto per l’esercizio delle loro attività.
Venne siglato un contratto d’affitto che durò fino al completamento del nuovo edificio. Nel 1954, le Figlie di Maria Ausiliatrice, entrarono nell'attuale Istituto intitolato al sacerdote Eligio Amico
«L’aiuto di mio padre verso le suore continuò», conclude Maria, «le suore per gratitudine regalarono a mia madre delle tende bianche ricamate a mano da loro stesse. Mio padre non volle che il suo nome venisse scritto sulla targhetta dei benefattori».
Quelli che abbiamo scritto sono solo alcuni episodi che riguardano l’avvenimento di una realtà straordinaria che, a ripensarci, ancora ci commuove.


Maria e Salvatore Giordano