06 maggio 2019

Via 4 Novembre e dintorni: La famiglia Rabita - 3^ Parte




Tra tutti i nostri vicini di casa ai quali si è accennato, la persona con cui la mamma si trovò più in sintonia fu la signora Giuseppina Aiesi, moglie di don Filippo Rabita. Tra lei e la signora Giuseppina fu subito simpatia reciproca; nel tempo si stabilì tra di loro una perfetta intesa che si consolidò in rapporto di stretta e duratura amicizia che coinvolse entrambe le famiglie. Nella signora Aiesi Rabita, di lei più anziana, la mamma, giovane sposa e già mamma poco più che ventenne, trovò una consigliera e un’interlocutrice ideale. La signora sua omonima trovò nella mamma un’allieva intelligente e intuitiva. Non erano necessarie fra le due molte parole per intendersi, si comprendevano con lo sguardo. Persone entrambe schiette, genuine e disponibili alla collaborazione, davano ai rapporti e alle cose peso e valore appropriati; dotate di una certa giovialità e senso dell’umorismo, sapevano cogliere l’aspetto comico delle situazioni. «La signora Rabita fu la prima ad apprendere della mia nascita», racconta Maria, «la mattina della domenica di quel 29 giugno, quando alla signora Aiesi, affacciatasi alla sua finestra di via Rosolino Pilo per chiamare mamma - si erano intese il giorno prima per andare insieme a messa - la nonna Maria Cava comunicò che, nella notte, ero nata io». Don Filippo Rabita aveva il suo laboratorio dietro la chiesa del Rosario, in via Fenice (ora Don Minzoni); vi esercitava l’arte assieme al fratello Liborio e ai propri due figli. Appena svoltato l’angolo, da piazza Matteotti, già si sentiva il rumore degli attrezzi in funzione e si avvertiva l’odore della polvere del legno, sempre più penetrante man mano che ci si avvicinava. All’interno del locale, si notavano, appoggiate alla parete di fronte all’entrata, assi di legno di vario tipo e di diverso spessore che toccavano quasi il soffitto; rastrelliere piene di attrezzi, righe e squadre pendevano dalla parete di destra, per lo più occupata da pezzi di mobili in costruzione. Addossate alla parete di sinistra e sostenute, su tre piani, da robusti spuntoni sporgenti, si intravedevano, benché fossero coperte da un telone grigio, casse dalla forma inquietante. Tra le casse e l’angolo sinistro di fondo stava il tornio. Due solidi banconi, con ampi incavi sui piani da lavoro e terminanti con grosse morse, erano sistemati perpendicolarmente alla parete di fondo. I Rabita costruivano ogni genere di mobile; seri e puntuali, godevano di un vasto numero di clienti. «Io però mi ci recavo», dice Salvatore, «soprattutto per farmi costruire
li rrummula: appena venivo in possesso del tronchetto di ulivo, correvo da don Filippo, sicuro e fiducioso, e lo osservavo mentre, tra una pausa e l’altra di lavori più seri, sistemato al tornio il pezzo di legno, lo sgrossava da una parte e dall’altra e lo rifiniva per dare all’oggetto la grandezza e la forma desiderata. Grazie a lui si potevano infatti ottenere, passione di tutti noi ragazzi, trottole personalizzate, della fattura che si voleva, tornite ed eleganti, dei veri prodotti artistici, ben diverse dalla rozze e grossolane trottole, tutte uguali, che si compravano alle bancarelle del mercato o al negozio di Magliocca. Peccato non averne conservata neppure una. Alla sua bravura nel lavorare il legno», prosegue Salvatore, «don Filippo univa molta bontà e pazienza; parlava sempre in modo calmo e pacato; mi spiegava, rispondendo a certe domande che, incoraggiato dalla conoscenza, osavo rivolgergli, che il bancone da lavoro del suo laboratorio era costruito con un legno americano, «forti cumu lu firru, lu piscipagnu» (pitch-pine), che il rumore lacerante che si sentiva mentre veniva segato era il lamento del legno, perché «anchi lu lignu soffri, cumu li cristiani».

«Impossibile per me», dice Maria, «dimenticare la figura di don Filippo Rabita. Me la ricorda costantemente un piccolo mobile che, posto in bella vista, adorna tra gli altri l’entrata della mia casa a Torino. Si tratta di un comò in miniatura stile ‘800, che don Filippo mi regalò quando ero ancora bambina. È un modellino alto 45 cm per cm 38 di larghezza, con i piedini a cipolla, le colonnine laterali tornite a bottiglietta, cinque cassettini estraibili, due piccoli superiori e tre grandi inferiori. Lu cantaraniddu, posto in un angolo del laboratorio e coperto di polvere, aveva attirato la mia attenzione una volta che, per caso, avevo accompagnato papà alla falegnameria Rabita, e me ne ero innamorata. A lungo lo avevo ammirato e desiderato! Quando mi capitava di transitare dalle parti di Piazza Matteotti, mi avvicinavo al laboratorio, entravo, mi accostavo al mobiletto, lo spolveravo, lo fissavo, uscivo col piccolo comò che mi ballava davanti agli occhi. Don Filippo intuiva il mio desiderio, ma restava apparentemente indifferente: mi fece patire un po’, forse il mobiletto gli ricordava suo padre, l’artefice, e non voleva separarsene. Ma “il miracolo” avvenne. Il giorno in cui si compì, don Filippo mi disse: “Maria, eccolo, è tuo, ma, mi raccomando, tienilo bene”! In quel momento il cuore mi batteva forte dalla gioia! A casa lo tenni sempre vicino a me. Un giorno a scuola ne decantai i pregi e le bellezze in un componimento che la maestra ci aveva assegnato:”Parla di un oggetto a te caro”. Quando mi sposai e dovetti trasferirmi a Torino lo lasciai in paese sicura che sarebbe stato ben custodito, ma col pensiero di fargli attraversare lo stretto il prima possibile. A qualche aspirante la mamma ripeteva “è di Maria, non si tocca!”. Dovevano passare diversi anni prima di avere il mobiletto di nuovo con me. Accadde quando mia sorella Michela, venduta la bella casa di via Principessa Deliella, portò su i mobili che costituivano per noi oggetti di maggior pregio, soprattutto dal punto di vista affettivo, alcuni dei quali portavano i segni di nostri interventi impropri. Tra essi, accuratamente impacchettato, il mio “giocattolo” finalmente partì da Pietraperzia per la sua nuova dimora. Giunto a Torino fu portato da un restauratore che, con una modesta spesa, ridiede al mobiletto il suo originale splendore. Ora il piccolo comò, posto in bella vista, adorna tra gli altri mobili l’entrata della mia casa; lo sposto secondo l’inclinazione del momento, ma sempre negli angoli più in vista. Passa il tempo e inesorabile lascia su tutti noi le sue tracce, ma lui, lu cantaraniddu, non registra il fenomeno: sempre più bello, lui sì è sempre come fosse appena nato».

L’amicizia tra le due famiglie si consolidò col tempo e continuò, senza mai uno screzio o una semplice incomprensione, anche quando i Rabita lasciarono la casa di via 4 Novembre e si trasferirono in Via San Giuseppe. Scomparsi don Filippo e donna Giuseppina, l’amicizia è proseguita soprattutto con Giuseppe Rabita, che ci aveva visto nascere e fatto giocare nei nostri primi anni di vita. «Nel mio album delle fotografie», dice Maria, «una ne conservo, scattata nell’occasione del passaggio di un fotografo ambulante dalla via 4 Novembre: sono seduta su un tavolo ricoperto da un tappeto di ciniglia; accanto al tavolo, sul cavallino a dondolo, mio fratello con il boccolo ben ordinato. Tutte le volte che ci incontriamo, Peppino non manca di ricordarmi quell’episodio: egli, nascosto dietro il tappeto, mi sostenne con una mano per paura che cadessi all’indietro. Non avevo ancora un anno, mio fratello ne aveva circa tre». Peppino ha continuato ad esercitare l’arte del padre, con le stesse competenza e abilità, sino alla pensione. Era una sua specialità la costruzione delle persiane con le gelosie movibili, cosa che richiede precisione e pazienza. Il nostro rapporto è stato, ed è, caratterizzato dagli stessi sentimenti di sincerità, schiettezza e di stima reciproca oltre che da vicendevole aiuto in momenti di difficoltà, come capita a tutti nella vita. Per noi è rimasto “cumpari Pippinu”, come erano soliti chiamarsi con papà e mamma, così come “Cummari Maria” mamma chiamò sempre la sua signora (Maria Marotta) quando Peppino si sposò. Fu lui che ci accolse per primo in Piazza Vittorio Emanuele, il 18 agosto del 2005, quando tornammo in Sicilia dopo venticinque anni di assenza, con la stessa premura con cui accoglieva mamma e Michela, quando, quasi ogni anno, d’estate, tornavano al paese. Assieme a lui facemmo il giro del cimitero, fermandoci, dopo la visita ai nostri cari, a ricordare, davanti alle loro tombe, parenti, conoscenti e amici scomparsi. Per tutta la mattinata visitammo i luoghi del paese, ricordandoci vicendevolmente gli eventi e i momenti che avevano visto vicine le nostre famiglie.

Alla sua abilità di artigiano del legno, Peppino Rabita associava una grande passione per il ballo, una passione incontenibile: dotato di grande sensibilità musicale e di una naturale attitudine, non c’era musica che non sapesse immediatamente, e senza alcuna difficoltà, ispirargli i passi da compiere e le figurazioni da assumere. Ballare lo appagava, niente gli dava maggiore soddisfazione. Di sentimenti romantici ed animo di poeta, esprimeva nel ballo l’autenticità della sua natura. Amava ballare il valzer, il tango, la polka e tutti i balli classici della tradizione, ma ballava anche, con la massima disinvoltura, i nuovi balli, latino-americani, afro-cubani, man mano che venivano importati nel nostro paese; il ritmo del bughi-bughi (Boogie-Woogie), del samba, del charleston gli mettevano addosso una forte carica di entusiasmo. Il periodo dell’anno che preferiva era quello del carnevale, durante il quale poteva dare sfogo alla sua passione dominante. Assieme alla sorella Piera, anch’essa abile ballerina, giravano per le vie del paese, vestiti in maschera, chiedendo un ballo nelle case dove si tenevano serate danzanti. Vederli ballare faceva pensare a Fred Astaire e Ginger Rogers, la celebre coppia di ballerini americani. Erano subito riconosciuti perché era nota in paese questa loro predilezione; sempre applauditi e invitati a restare, accettavano di fare un altro ballo, ma raramente si fermavano. Era come se avessero una missione da compiere: essere i testimonial della danza. Anche il fratello Vincenzo era portato per la musica, suonava ottimamente la fisarmonica ed era un bravo ballerino: quando si sposò con Anita Cutaia, figlia di don Arfonziju Cutaija, impiegato comunale, le coppie diventarono due. Fu questa attitudine che portò i due fratelli ad unirsi ad un gruppo di altri valenti suonatori e a fondare un complesso, il “Gempen”, in cui Peppino fu apprezzato batterista. L’orchestrina riscosse grande successo tra i pietrini e per molti anni allietò trattenimenti matrimoniali, feste di battesimo, serate danzanti. Quanto alla intitolazione del complesso, ”Gempen”, il significato resta un mistero, noto forse solo a qualcuno dei componenti del gruppo.

Lunga vita, compare Peppino, e grazie di questa amicizia!  

Maria e Salvatore Giordano





30 aprile 2019

"CAMPANA" di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html

Dino Campana l'altro giovane favoloso
Dicevano che era matto. Io, che lo vidi e ci parlai due volte, non so dire se lo fosse davvero: so soltanto che mi sembrava sempre o più saggio di ogni saggio, o più folle di ogni pazzo; ecco: un uomo eccezionale, che rivelava poco di sé e forse nascondeva il meglio. Certo, questo - forse- vuol dire essere matti, ma la sua pazzia (se pazzia fu davvero) era luminosa e forte, non tetra e muta e crudele come la pazzia che disperde le parole, spegne lo sguardo in una lucentezza dura di bilia.
Lo incontrai la prima volta che la terra fumava d'una nebbia opaca e lenta. Sembrava, la terra, un gigantesco animale nero dal cui dorso saliva un vapore biancastro, come si vede sulle schiene dei cavalli dopo un lungo galoppo. Era una bruma opaca, lattiginosa, che stratificava in bande più spesse attorno a cespugli e tronchi neri, e diradava fino a sparire, creando un varco che lacerava quella misteriosa tela aerea.
Pareva, anche, che la terra respirasse, che da lei salisse a un ritmo sconosciuto quel respiro che prendeva forma visibile d'una brina fluttuante nell'aria.
Eravamo a Casetta di Tiara, l'autunno incupiva, veniva vento freddo dalle cime delle montagne e le nuvole erano grosse e scure, piene di pioggia.
Io, a quel tempo, volevo fare il pittore; ero giovane, ero ingenuo, e credevo che la nostra vita sia veramente nostra. Non è così. Ho imparato, con dolore, che la nostra vita è quello che ci lasciano vivere gli altri, quelli che decidono, che comandano, che hanno i soldi e vivono come vogliono; quelli che dicono sempre "eh, la vita è fatta così, bisogna accontentarsi"; ma loro, invece, non si accontentano di nulla che non sia ciò che a loro piace.
Insegnano la rassegnazione e la pazienza, ma loro -i signori, i ricchi, i padroni- non farebbero mai nulla di quanto dicono agli altri: non vogliono nient'altro di ciò che decidono per sé.
A quel tempo, io ero giovane e sognavo di fare il pittore. Mi dicevo: "sono bravo, ho studiato, l'arte è una cosa nobile e bella, perché non potrei fare il pittore?". Ero giovane e sprovveduto, credevo che uno avesse tutto il diritto di scegliersi la vita che vuole; mentre invece non è così; per noi, non è così.
Ero andato ad abitare per l'estate in una casa di pietra che mi aveva affittato una vecchia zitella.
Avevo una camera con appena un letto, due sedie e un tavolo, ma ero molto felice e sentivo che lì un pittore poteva lavorare molto bene. D'estate uscivo al mattino presto, subito dopo essermi lavato la faccia nel catino di smalto. Il monte brillava dentro la luce del sole che saliva; era come attraversato dal chiarore che si dilatava in un polverio infinito di schegge di luce bianchissima.
Portavo il cavalletto e la tela e la scatola dei colori e pennelli. Era faticoso e spesso dovevo aggrapparmi agli alberi per issarmi, per non scivolare. Ricordo ancora la superficie ruvida, come arsa, dei carpini.
Un'altra cosa bellissima di quei giorni lontani è il profumo dell'olio di lino che si mescolava con l'odore della terra calda brulicante, delle foglie che splendevano al sole come cocci verdi delle bottiglie. Era tutto caldo e quieto, e io sentivo ronzare gli insetti che non si vedevano.
Dipingevo tutti i giorni, per diverse ore, ed ero molto felice. Non sapevo che era tutto inutile e che non sarei mai stato pittore, ma in quel tempo ero così felice, tanto ingenuo e ancora sicuro che ciascuno potesse essere ciò che si sentiva dentro.
Adesso che ci penso, forse il matto mi aveva visto molto tempo prima, perché lui nel bosco ci girava come se fosse tutto suo: si muoveva non solo con sicurezza (anche i montanari del luogo sapevano tutti i sentieri), ma anche con una certa franca scioltezza, direi con eleganza.
Io non lo vedevo, ma lui certo vedeva me, ma non volle mostrarsi. Non credo che si nascondesse, credo anzi che non temesse nulla da un pittore, ma evidentemente non voleva ancora farsi vedere.
Passò l'estate; era l'estate del 1916 e la gente che mi vedeva di certo si domandava perché mai quel giovane non fosse andato alla guerra, e io ormai non mi curavo più di far sapere che ero tisico, come se dovessi giustificarmi del fatto che non ero ancora morto, perché così dovevo finire: morto d'uno sputo di sangue o morto con una palla in testa, così dovevo finire, per la gente.
Arrivò l'autunno; io vivevo ancora nella piccola casa di pietra; passava meno gente per il sentiero davanti alla mia porta. Gli alberi si fecero più sottili e persero ogni colore, diventando segni neri scomposti che solcavano il cielo fumoso. Tutto divenne più silenzioso.
Un mattino - ricordo che era un sabato - ero andato a fare schizzi al torrente Rovigo: volevo cercare di ricreare l'effetto di trasparenza senza riverberi dell'acqua sotto il cielo bianco. Ero troppo ambizioso, a quel tempo; come tutti i giovani inesperti sapevo trovare belle idee ma non avevo la forza per realizzarle. Me ne stavo intirizzito, sentivo che non riuscivo a disegnare ciò che avevo pensato, ma volevo ostinarmi, insistevo, convinto che con uno sforzo più intenso avrei ottenuto ciò che desideravo.
Non l'avevo visto arrivare, così, quando parlò alle mie spalle, ebbi uno scossone, terrorizzato, e mi si spezzò il respiro.
Lui disse con voce molto bassa:
-Fate male ad intestardirvi.-
Io fui sorpreso non solo del fatto che quello era arrivato come una foglia caduta da un ramo, ma ancor più perché pareva avermi osservato a lungo, abbastanza a lungo da vedere la mia ostinazione senza successo.
Dissi qualcosa sulla difficoltà dell'effetto di luce che cercavo di rappresentare e lui rispose:
-Voi cercate l'inessenziale, per questo fallite.-
Capii che così non parlava un contadino.
-Anche voi siete pittore?- gli domandai.
Mi volsi verso di lui. Era un uomo giovane, non alto, massiccio, aveva la faccia larga, occhi chiari e capelli rossicci, baffi e barba un poco più scuri. Stava a braccia conserte sul petto e teneva le gambe una davanti all'altra, quasi cercasse un migliore equilibrio, come un marinaio sulla tolda quando il mare è mosso.
-Sono poeta.- rispose -Sono l'ultimo poeta barbarico.-
Non mi stupivano i tipi bizzarri: ne avevo conosciuti tanti fra i miei amici pittori.
-Voi siete barbarico?- gli chiesi molto incuriosito.
-Sissignore. L'ultimo dei germani. Nella mia anima alberga la purezza originaria della parola.-
-Attento a parlare di germanici, amico mio. Con questa guerra non è bene dire certe cose.-
Il giovane sbarrò gli occhi e mi fissò sbalordito.
-Voi siete un poliziotto?- mi domandò.
-Ah no! No, proprio no!-
Fece due tre passi indietro; ora la sua straordinaria agilità e il suo perfetto equilibrio sulla terra scoscesa erano diventate una postura incerta, e lui s'era come ingobbito, curvato sotto un peso invisibile.
-Ah cane!- esclamò agitando le mani -cane d'un italiano! cane d'una guardia! cane d'uno sbirro!-
Scappò via; lo sentii parlare da solo.
Firenze, quando c'è il sole, diventa grandissima e leggera.
I palazzi, che pure sai essere enormi masse di mattoni e marmo e pietra, sembrano così lievi che il vento potrebbe farli ondeggiare, come grosse foglie. E le facciate delle case, delle chiese rimandano la luce, che si moltiplica, schiarendo, in un quieto vortice di luminosità e scintillii abbaglianti.
Quando c'è il sole, Firenze diventa calda come una mano che tocca il forno. E', infatti, un tepore pieno e sano di cosa viva, che fa star bene, che rassicura e conforta.
E la gente a Firenze, quando c'è il sole, è più serena e sembra assorbire nel corpo il calore vitale che scende dal cielo brillante, che sale dalle strade.
In quei giorni, ero tornato dai monti del Mugello. Non sapevo più niente di me: se ero o no pittore, se avrei potuto vivere della mia arte, se ero o no felice. Ero giovane, mi illudevo di poter giudicare e vivere la mia vita, e solo la fatica e l'amarezza mi hanno fatto piegare la testa e fissare la realtà, e capire che noi tutti siamo anelli di una catena di cui non vedremo mai le estremità.
Ero andato a Firenze, quell'estate del 1917, con gli ultimi risparmi rimasti. Pochi giorni ancora e non avrei avuto di che pagare vitto e alloggio e vestiti: la tassa sull'esistenza. In quegli istanti di accettata incoscienza, andai al caffè delle Giubbe Rosse; mi dicevo: se fra poco sarò un barbone sotto il Ponte alle Grazie, tanto vale che mi conceda adesso, finché ho tre lire in tasca, un po' di piacere, un po' di lusso. E questa mia decisione -che riconoscevo stupida e inutile- mi dette un po' di coraggio.
Entrai al caffè e subito mi avvolse una frescura di caverna. C'era tanta gente e io guardai tutti con curiosità, quasi con cura: guardavo e mi dicevo "ecco, vedi, questi sono tutti più fortunati di te e quando torneranno a casa troveranno una bella famiglia, i domestici premurosi, i guanciali soffici".
Sedetti al tavolo più vicino all'ingresso, così da poter guardare il passeggio nella piazza che si apriva davanti alle vetrine e all'ottone delle Giubbe Rosse. Chiamai il cameriere e quello arrivò subito, ma restò un attimo perplesso vedendo le mie scarpe sporche e il mio vestito liso. Presi di tasca i soldi, li passai nell'altra tasca solo per farglieli vedere (e questo mi pare lo tranquillizzò) e dissi con finta noncuranza:
-Per piacere, favoritemi una birra ghiacciata.-
Il cameriere fece un cenno con la testa, che non mi parve lo stesso inchino che faceva agli altri clienti -quelli vestiti bene-, ma piuttosto un assenso. Aspettavo la birra e guardavo fuori; non pensavo a niente, non volevo pensare perché il pensiero è il peggior nemico di chi è povero.
La gente che camminava nella piazza mi sembrava, tutta, tranquilla e sazia, pareva che tutti avessero un posto da raggiungere in fretta, un posto in cui ciascuno sarebbe stato bene. All'improvviso apparve davanti a me, oscurando la visione della piazza, un uomo.
-Mi riconoscete?- domandò a voce un po' troppo alta. Alzai la testa e lo guardai sorpreso.
Mi parve di averlo già visto, ma non riuscivo a capire, a fissare l'idea.
L'uomo mi fissava e sorrideva, aveva lo sguardo divertito dal mio stupore. Riconobbi gli occhi chiari e accesi, i capelli rossi e scomposti.
-Ah ma voi siete il poeta della montagna!- esclamai alzandomi in piedi.
Lui rise forte e la gente si girò a guardare. Diceva:
-Il poeta della montagna! Sì! Sono il poeta della montagna!-
Si sedette al mio tavolino senza aspettare che lo invitassi. Mi chiese cosa facevo a Firenze e io gli dissi un po' di me.
-Non è importante essere un grande artista.- fece lui -Ciò che conta davvero è essere un puro artista.-
-Dite bene, voi. Ma anche il puro artista mangia e veste panni.-
-Lo so.- rispose duramente, forse deluso dalla mia osservazione.
-E come pago l'affitto di casa? Con i quadri?- continuai, quasi incattivito.
-Arte e soldi non hanno niente in comune. Si escludono a vicenda come la luce e il buio. Dovete scegliere: o arte, o soldi.-
-Sì, capisco. Ma se muoio di fame, la mia arte finisce lì.-
-Sbagliate: l'arte è la sola risposta dell'uomo alle pretese della morte.-
-Questo lo credevo anch'io.- dissi -Ma adesso non la penso più così. L'arte deve comunicare, deve aprirsi al mondo, deve essere di tutti; se no non esiste. L'arte chiusa nel cassetto non è arte.-
-Ma non può essere neppure un mestiere.- ribatté il mio interlocutore- Il muratore deve obbedire al capomastro; il falegname deve accontentare chi gli chiede un armadio. L'artista non può avere un padrone e dunque non può avere un mestiere.-
-Eppure ci sono grandi artisti pieni di soldi.- dissi.
L'uomo non rispose; affondò la destra sotto la maglia e ne estrasse un libriccino sottile, con la copertina d'un giallo sbiadito.
Me lo porse e io lessi il nome di Dino Campana e il titolo "Canti Orfici".
-Avete una lira e mezza?- mi chiese il giovane uomo, porgendomi il librino.
-Ne ho tre in tutto e devo pagare la birra.-
-Datemi allora una lira.-
Nella voce di quell'uomo sentivo una trepidazione dolorosa.
-Forse è meglio se offrite il vostro libro ad un altro.- dissi.
Temevo che quel tipo strambo avrebbe insistito, magari avrebbe gridato; invece Campana non ebbe alcuna reazione.
Ora, penso che egli era abituato a certi rifiuti e non gli facevano più male.
Ripose il libro sotto la maglia, disse "buona fortuna" e se ne andò.
Uscì dall'ombra del caffè e, sulla piazza, fu avvolto dalla luce polverosa che fece più sottile la sua figura. Lo guardai andare verso via degli Strozzi. Camminava pestando i piedi, con le braccia pesanti lungo i fianchi, come fanno i montanari, come andando contro un vento sempre contrario.





26 aprile 2019

Invito alla lettura: Il veleno dell’oleandro di Simonetta Agnello Hornby





Dopo avere letto la trilogia La Mennulara, Boccamurata e La zia Marchesa, “Il Veleno dell'oleandro” non si scosta nello stile e nelle tematiche sempre riproposte dalla nostra autrice. Una scrittura sapientemente resa scorrevole con le colorite descrizione di personaggi e luoghi di una Sicilia immaginaria. Luoghi immaginari ma che emergono reali alla mente di ogni siciliano che se ne è allontanato e le rivive con nostalgia.
Una scrittura sempre elegante anche nei piccoli dettagli descrittivi che danno forma e piacevolezza ai suoi romanzi.
Il racconto “Il veleno dell’oleandro” è ancora la narrazione drammatica di una grande famiglia: i Carpinteri, che nel groviglio delle passioni morbose, delle rivalità, dei segreti gelosamente custoditi, degli amori clandestini l’autrice intreccia con la consueta maestria sentimenti e risentimenti, sapendo creare momenti di vera suspance.
Bede Lo Mondo, un giovane bellissimo, viene accolto nella sua adolescenza dalla famiglia benestante dei Carpinteri, che gli dà la possibilità di studiare e di crescere nella loro tenuta de Ceuta a Pedrara.
Bede rimarrà fedele tutta la vita ad Anna, la padrona della tenuta. Accudirà devotamente Anna, ormai vecchia e malata di una forma di demenza fino alla sua morte. Un rapporto ambiguo ha legato Anna e il molto più giovane Bede.
L’incontro con i figli Luigi, Giulia, Mara e i parenti, accorsi al capezzale di Anna accende vecchi rancori famigliari, vecchi amori, storie di tesori nascosti, passaggi segreti. Anche i rapporti con la famiglia di Bede: i Lo Mondo, e una setta segreta, vedono il ritorno dei padroni come un ostacolo allo svolgimento delle loro attività illegali. Tanti misteri si svolgono nella villa e troppi personaggi entrano nella trama del romanzo.
Simonetta Agnello Hornby, in questo romanzo, introduce “parentesi” su numerosi soggetti solo accennati, una fotografia ridondante e non sempre nitida di personaggi e situazioni inverosimili: l'anoressia, la violenza familiare sulle donne, la bisessualità, l’omosessualità, l’associazione mafiosa, lo sfruttamento degli immigrati di colore.
Veramente troppo per non dare, in certi momenti, poca credibilità alle storie complicate della famiglia Carpinteri. La scrittrice non ha voluto fare una narrazione che avrebbe appesantito il romanzo su temi troppo scontati. Forse consapevolmente si è limitata ad accennarli, mettendo così il lettore nella condizione di immaginare e riflettere su argomenti della nostra attualità


Lina Viola



Il libro Il veleno dell’oleandro di Simonetta Agnello Hornby  è disponibile in biblioteca.  Puoi prenotarlo cliccando qui