01 febbraio 2018

Dietro le quinte dell' "Unificazione" d'Italia



Innanzitutto grazie al sign. Di Gregorio per il suo accurato e accorato commento. Mi riempie di gioia vedere come il nostro non sia un blog di “sola lettura”, perché le sue parole hanno cucito attorno alla mia intervista il sottile filo di un dialogo che ha dato a me preziosi spunti e da cui spero ciascuno possa ricavarne altri.

Le mie parole (e insieme di Tomasi) “dovremmo far vituperio di tutta la Storia e riscriverla come si fa con un romanzo, ma da noi stessi! Quella sì sarebbe vera Storia”, sono volutamente sarcastiche, di amara ironia.  Sappiamo benissimo che la Storia e la Letteratura sono due approcci completamente diversi alla realtà – l’una oggettiva e basata su fonti storiche (o almeno così dovrebbe essere), l’altra soggettiva e basata sulla personale visione di uno scrittore che si fa filtro e lente per l’interpretazione della realtà stessa - anche se a volte, nel cosiddetto «romanzo storico» le due tendono a intrecciarsi. Ma, considerate le verità parziali e distorte  che i libri di storia ci raccontano sul Risorgimento (non è un caso che in riferimento agli eventi di quegli anni  si parli sempre di «retorica del Risorgimento» o di «mito del Risorgimento», diciture che tradiscono già una discrepanza fra la Storia e la realtà del fatti), talvolta il lettore troverà più verità in un romanzo che in un manuale.

Consideriamo, per esempio, i plebisciti di annessione. Lei scrive che «nel 1860, la stragrande maggioranza dei siciliani partecipò  schierandosi in favore della soluzione unitaria e facendo propria la parola d’ordine “Italia e Vittorio Emanuele”». Prendiamo in esame un manuale, una fonte storica e un romanzo.

La foto ritrae le pagine di un manuale di storia oggi (nel 2018! E non è di certo l’unico) in uso in una scuola media di Catania. Vi si legge a chiare lettere che «In ottobre la Sicilia e l’Italia meridionale, con un plebiscito, votarono con il 99% di sì l’annessione al Regno di Sardegna».



Le parole che seguono sulla dinamica delle votazioni sono di Filippo Curletti, agente segreto di Cavour, modenese che partecipò in prima persona alla gestione dei seggi nella sua città. Prima di morire Filippo chiamò un notaio e fece le sue confessioni, immediatamente intercettate e segretate dal governo militare, pubblicate solo 150 anni dopo. Afferma Curletti:

«Ci eravamo fatti rimettere i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori. Preparammo tutte le schede per le elezioni dei parlamenti locali, come più tardi pel voto dell’annessione. Un picciol numero di elettori si presentarono a prendervi parte: ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti.
Non è malagevole spiegare la facilità con cui tali manovre hanno potuto riuscire in paesi del tutto nuovi all’esercizio del suffragio universale, e dove l’indifferenza e l’astensione giovavano a maraviglia alla frode, facendone sparire ogni controllo [...] In alcuni collegi, questa introduzione in massa degli assenti nelle urne, - chiamavamo ciò “completare la votazione”, - si fece con sì poco riguardo che lo spoglio dello scrutinio dette un numero maggiore di votanti che di elettori inscritti».

Sottolineo che Curletti è modenese e afferma che «d’altronde le cose non avvennero diversamente a Parma ed a Firenze». Figurarsi al Sud! L’On. Angelo Manna, che nel 1991 chiedeva in Parlamento di desecretare dei documenti che lo Stato tiene ancora oggi nascosti, nella sua storica interpellanza parlamentare, ribadiva come a Napoli appena l’1,9 % degli aventi diritto si fosse veramente recato alle urne in quel fatidico ottobre del 1860. Quel Sud dove i cosiddetti “Briganti”, i quali altro non erano che patrioti e partigiani in lotta per liberare il loro Regno invaso, lottarono per più di dieci anni dopo l’“unificazione” e dove lo “Stato unitario” chiuse le scuole per ben 14 anni (fino al 1875) per evitare che l’insurrezione si spandesse a macchia d’olio.

Riporto qui di seguito la versione che Giuseppe Tomasi di Lampedusa dà del medesimo plebiscito nel suo romanzo storico, dalla prospettiva di Donnafugata. Capitolo III, datato proprio ottobre 1860:

« Alla folla invisibile nelle tenebre [Don Calogero] annunziò che a Donnafugata il Plebiscito aveva dato questi risultati:

Iscritti 515; votanti 512; "si" 512; "no" zero.

[...] Il fresco aveva disperso la sonnolenza di don Ciccio, la massiccia imponenza del Principe aveva allontanato i suoi timori; ora a galla della sua coscienza emergeva soltanto il dispetto, inutile certo ma non ignobile. In piedi, parlava in dialetto e gesticolava, pietoso burattino che aveva ridicolmente ragione.
"Io, Eccellenza, avevo votato 'no'. 'No,' cento volte 'no.' Ricordavo quello che mi avevate detto: la necessità, l'inutilità, l'unità, l'opportunità. Avrete ragione voi, ma io di politica non me ne sento. Lascio queste cose agli altri. Ma Ciccio Tumeo è un galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sfondati (e percuoteva sulle sue chiappe gli accurati rattoppi dei pantaloni da caccia) e il beneficio ricevuto non lo aveva dimenticato; e quei porci in Municipio s'inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco! Per una volta che potevo dire quello che pensavo quel succhiasangue di Sedàra mi annulla, fa come se non fossi mai esistito [...] A questo punto la calma discese su Don Fabrizio che finalmente aveva sciolto l'enigma; adesso sapeva chi era stato strangolato a Donnafugata, in cento altri luoghi, nel corso di quella nottata di vento lercio: una neonata, la buonafede».
(Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 2006, pp. 122-125).


Ecco il senso delle mie parole: considerate le bugie e le omissioni della Storia ufficiale, c’è talvolta più verità nella letteratura che non altrove, soprattutto quando la letteratura si fa interprete di un’esigenza di ricostruzione storica, come nel caso del Gattopardo. E non perché ognuno debba scriverla come gli pare, ma perché nel paradosso di una “Storia” ufficiale che non ci racconta la verità, un romanzo – in questo caso il Gattopardo – sa essere più vero della “Storia”.

Con ciò non nego assolutamente l’operato e gli intenti completamente diversi di chi un’idea di Italia ce l’aveva eccome. Non nego i misfatti e il malgoverno dei Borbone (soprattutto dell’ultimo, e soprattutto in Sicilia, lontana da Napoli e perciò non gestita allo stesso modo). Non  nego il valore delle insurrezioni che avevano preceduto il 1861 né le divisioni interne e le debolezze del Regno delle Due Sicilie, che altrimenti non sarebbe affondato in quel modo (nessun generale si sarebbe fatto vergognosamente corrompere come il Landi a Calatafimi). Non nego la volontà di liberazione dallo straniero che ferveva nel cuore di veri patrioti. Dico semplicemente che il tutto è finito nell’alveo della strumentalizzazione delle idee, piegate ad esigenze altre.

Fra qualche anno gli “storici”- o meglio i “propagandisti” al servizio del potere costituito, che bisogna distinguere dai veri storici -  scriveranno sui manuali che i primi decenni del XXI secolo sono stati caratterizzati da numerosi attacchi terroristici ad opera di folli kamikaze che terrorizzavano il povero Occidente causa la diffusione dell’assurdo credo in un dio Allah, in nome del quale si combatteva una guerra santa contro gli infedeli da convertire a suon di bombe. Ma in pochi diranno che “jihad” in realtà in arabo equivale al tedesco “Streben”: “aspirazione" "tensione", una “tendenza infinita al superamento del finito” in direzione di Dio e di un sé più autentico. In pochi diranno che la strumentalizzazione che ne ha fatto il potere politico, l’ha trasformata in una guerra tra fratelli, mentre chi vuole veramente tutto questo rimane nell’ombra. E la storia vera, quella di un ISIS orchestrato dalla CIA, per autorizzare gli USA a combattere per quelle risorse economiche, che guarda caso pullulano in quei territori, diverrà “Controstoria del Terrorismo” - così come le reali vicende del Risorgimento passano oggi sotto l'etichetta di "Controstoria del Risorgimento" -. La democrazia resterà un costume da scena, da far indossare di volta in volta a questa o quella guerra, per mascherare le vere cause di appropriazione di risorse che la sottendono. Perché aiutare solo certi popoli a “conquistare” la democrazia? E gli altri? Gli altri forse non la meritano?  No. Gli altri non possono dare nulla in cambio. 
Ecco, la dinamica di "liberazione dallo straniero" di un Regno come quello delle Due Sicilie, governato da sovrani che erano spagnoli sì, ma napoletani da quattro generazioni, mi riporta sulla medesima scia delle "democratizzazioni" forzate di oggi, fatte più per interessi economici che non per un intento reale di Liberazione.

Lei mi chiede perché  la definisco «pseudo-unificazione».

  • Già nel 1832 Ferdinando II di Borbone aveva proposto al cugino Carlo Alberto di Savoia una “Confederazione di Stati”, ma nel rispetto delle libertà di ognuno di essi, per dare vita ad una compagine territoriale forte e indipendente nei confronti delle mire degli stati stranieri. Il Regno delle due Sicilie, che cercava di difendere a tutti costi il proprio diritto di neutralità, era, inoltre, il più ricco d’Europa dopo le stesse Inghilterra e Francia. Questo chiaramente disturbava l’Inghilterra che, da potenza navale mondiale qual era, non poteva permettere che proprio nel cuore del Mediterraneo – porta d’accesso a ben tre continenti quali l’Africa, l’Asia e l’Europa stessa – dominasse una potenza in continua crescita come quel Regno la cui flotta era passata da 2.387 navi nel 1818 a 9.848 navi nel 1860. Nel 1869 si sarebbe ufficialmente aperto il Canale di Suez e gli inglesi dovevano assicurarsi a tutti i costi il pieno controllo del Mediterraneo a scapito dei francesi e degli stessi Borbone (questo era anche lo scopo del Protettorato e spiega anche la corsa forsennata per quel piccolo pezzo di lava emerso al largo delle coste siciliane già nel 1831). Il Protettorato di cui parla lei, visto da questa prospettiva, acquista una luce del tutto diversa: gli inglesi non ricoprono un ruolo filo-borbonico perché favoriscono i Borbone né tantomeno perché vogliono “ripristinare l’ordine”: essi vogliono assicurarsi di non perdere il controllo su quei territori. Con gli stessi accordi di Plombières ancora Napoleone III sperava di collocare sul trono bonbonico un nipote di Gioacchino Murat, ma gli inglesi non l’avrebbero mai permesso. Spodestare un nemico al centro del Mediterraneo per assistere all’ascesa di uno ancora più grande come la Francia sarebbe stato contro ogni logica. Meglio tenere sotto scacco Cavour e il piccolo Regno del Piemonte, favorire la sua espansione e farlo ri-nascere come stato direttamente dipendente dall’Inghilterra fin dalle sue stesse origini. L’Inghilterra supportava economicamente già da tempo i tentativi del piccolo Regno del Piemonte di inserirsi nello scacchiere politico europeo, poiché aveva intuito che renderlo dipendente da un punto di vista finanziario, sarebbe equivalso ad asservirlo a sé da un punto di vista politico. E così fu: al momento dell’ “unificazione” il Piemonte aveva già un debito di un miliardo di lire con le banche londinesi ed era sull’orlo del fallimento. Come rimediare? Era conveniente per il Piemonte annettere un Regno che aveva due volte più monete (chiaramente indice, oltre che di ricchezza in sé, di una florida economia) di tutti gli altri Stati della penisola uniti assieme. Quello che segue è il quadro della situazione finanziaria dei Regni della penisola al momento dell’annessione.

Quantità di monete circolanti nella Penisola per un tot. di 668 milioni così ripartiti:

Regno delle Due Sicilie         milioni 443,2
Lombardia                                              8,1
Ducato di Modena                                  0,4
Parma e Piacenza                                    1,2
Roma                                                     35,3
Romagna, Marche e Umbria                 55,3
Sardegna                                                27,0
Toscana                                                  85,2
Venezia                                                  12,7

(Da Francesco Saverio Nitti, Scienze delle Finanze, Pierro, 1903, p. 292)

Ma il Piemonte non avrebbe mai potuto sostenere da solo il peso di quella conquista. Lo stesso Garibaldi nelle sue memorie dichiara: «senza l’aiuto di Palmerston Napoli sarebbe ancora borbonica e senza l’ammiraglio Mondy non avrei potuto giammai passare lo Stretto di Messina». Come avrebbero potuto appena mille uomini conquistare un intero regno nel giro di qualche mese, se la massoneria inglese non avesse investito una montagna di denaro per "comprare" generali borbonici, bande criminali e pagare lo stesso Garibaldi?  Ecco, io questa non la definirei “unificazione”, ma “corruzione” e “conquista militare”, peraltro di basso grado, fatta com’era senza nemmeno una dichiarazione di guerra.

  • Non prelude certo ad una degna unificazione uno sbarco fatto in Sicilia assicurandosi prima la collaborazione delle cellule criminali presenti sul territorio. Totò Riina al processo degli anni Ottanta affermò: «Io amo l’Italia, per la quale la mia famiglia ha dato il suo fondamentale appoggio preparando lo sbarco di Garibaldi». E Antonio Patti, mafioso, al Sostituto Procuratore della Repubblica di Palermo nel 1997: «Garibaldi poté sbarcare e spostarsi liberamente in Sicilia perché il Piemonte versò i soldi alla mafia assicurandosene la collaborazione». Non stupisce, al momento dell’instaurazione della dittatura garibaldina in Sicilia, leggere fra i Decreti dittatoriali del 17 agosto: «si ordina dichiararsi nulle, e come non avvenute, tutte le condanne emesse su i fatti, che durante il governo borbonico, si consideravano come reati, ed i condannati doversi intendere rientrati ipso jure nello esercizio di tutti i diritti civili e politici». Lo stesso Rocco Chinnici, capo del Pool Antimafia coadiuvato da Falcone e Borsellino, giudice assassinato nel 1983, affermava: «la mafia come associazione e con tale denominazione prima dell’Unificazione non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia». A Napoli il Prefetto di polizia Liborio Romano, futuro ministro del Regno d’Italia, in segreto contatto con Camillo Benso conte di Cavour e Garibaldi, convocò Salvatore de Crescenzo, capo delle locali bande camorriste, e lo arruolò nella Guardia cittadina insieme ai suoi affiliati. Ora la camorra era in coccarda tricolore e Tore ‘e Crescienzo, forte di legittimazione e protezione, diveniva affermato camorrista. Nell’ottobre dello stesso 1860 ebbe l’incarico di vigilare sulle urne a voto palese in occasione del plebiscito di annessione. Il potere costituito scende a patti con la criminalità, ne legittima l’operato e così si assicura l'assenso dei territori da annettere. Ecco, io questa non la definirei “unificazione”.
  • Massimo d'Azeglio pronunciò la famosa frase "Fatta l'Italia bisogna fare gli italiani". Ma ci sarebbe stato bisogno di "fare" un  popolo se questo si fosse sentito già tale? Quello che seguì  l' "unificazione" fu un abominevole sterminio, che i libri di storia tacciono o citano sotto la semplicistica e fuorviante etichetta di "brigantaggio", lasciando intendere che lo stato unitario dovette quasi sobbarcarsi una immane campagna di lotta alla delinquenza (in un Sud che d'improvviso si era affollato di malfattori rifugiatisi sui monti). E sì che ai veri briganti gli stessi Borbone avevano dato la caccia, ma non erano migliaia, e non avevano le divise borboniche addosso, come quelli che i piemontesi trucidavano ancora più di dieci anni dopo l'Unità; non erano donne, vecchi e bambini come quelli che il generale Cialdini massacrò a Pontelandolfo e Casalduni; non erano inermi contadini come quelli che il generale Pinelli trucidò in Abruzzo e nel Molise. Ogni anno piangiamo sugli ebrei e sulla barbarie nazista, ma nessun giorno della memoria ricorda le migliaia  di soldati borbonici (sembra siano stati almeno 70.000) morti nei primi lager della storia europea (molto tempo prima dei più famosi Auschwitz o Dachau!), che venivano deportati a Genova e da lì smistati nei vari campi di concentramento. A  Fenestrelle coloro che si rifiutavano di rinnegare il giuramento a Francesco II, venivano spogliati, imprigionati e, malnutriti com'erano, una volta morti venivano sciolti nella calce viva. Ecco, io questa non la definirei "unificazione", ma "eccidio". Ancor più grave se ad essersi macchiati le mani di sangue sono stati quelli che avrebbero dovuto essere loro "fratelli".
Nessuna vena di rimpianto, dunque, per il Regno delle Due Sicilie, né nostalgia (nel senso proprio greco del termine: nóstos = ritorno), giacché non si può avere voglia di tornare a qualcosa che non si è nemmeno vissuto. Da donna del XXI secolo, italiana e cittadina europea, ex-universitaria che è vissuta per anni a contatto con il resto d’Italia (che amo e stimo proprio per la sua diversità e per la ricca varietà di cultura, tradizioni e stile di vita), non sono di certo neoborbonica, né potrei esserlo. Ciò che sento, e che credo debba essere l’intento che muove ogni studioso e ogni singolo uomo, è un grande desiderio di Verità.


Valeria Bongiovanni

25 gennaio 2018

CARCÀRI E CIARÀMITARU DI PIETRAPERZIA di Giovanni Culmone - 4^ Parte


Cari lettore con questa puntata si conclude il racconto Carcàri e Ciaramitàru a Pietraperzia. Con una meticolosa descrizione delle fornaci e della cottura delle tegole e dell’enorme fatica per approvvigionarsi della paglia necessaria. Culmone ci riporta ad una realtà di vite vissute nella precarietà, preludio all’emigrazione di intere famiglie. L’articolo si chiude con un glossario dei termini dialettali e modi di dire pietrini, molti dei quali ormai persi nella memoria di un tempo che le ultime generazioni non hanno conosciuto.


LA FORNACE DEL TEGOLAIO

Per cuocere manufatti d’argilla era necessario, come lo è tutt’oggi, ottenere alte temperature che si aggirano sui mille gradi centigradi e mantenerle per tutta la durata della cottura. Temperature apparentemente impossibile raggiungere solamente con l’utilizzo di combustibile povero come la paglia e fornaci tradizionali realizzate dagli stessi artigiani.
Sta di fatto che a Pietraperzia, almeno dal 1708 e fino all’inizio del 1960 a lu ciaramitàru si producevano canàla, madù̢na, pantòfuli e, qualche antica testimonianza afferma, quartàri, bbù̢mmula e llancèd̩d̩i.
La fornace circolare a cielo aperto, di circa tre metri di diametro, era realizzata su terreno leggermente scosceso in modo di avere la camera di combustione facilmente accessibile a piano terra da una parte ed il vano cottura sopra, accessibile anch’esso a piano terra dall’altra. Il pavimento del piano cottura era il soffitto della camera di combustione e questi comunicavano attraverso vari fori rotondi di circa quindici centimetri di diametro. Con la camera di combustione attiva fiamma e fumo passavano attraverso i buchi nella camera di cottura. Il soffitto portante della camera di combustione era realizzato a volta con cocci di terracotta e malta refrattaria locale taju. L’apertura per governare la combustione non superava il metro di altezza talché gli operai che si alternavano a tenere accesa la fornace svolgevano il loro servizio sempre in ginocchio per tutta la durata della cottura che si protraeva per 16, 18 ore e a volte oltre. Negli angoli di base v’erano due prese d’aria calamì̢ti che portavano ossigeno alla fiamma prodotta dai continui pugni di paglia o d’altro lanciati all’interno dall’operaio in ginocchio.


Notevole importanza era data alla disposizione dei manufatti crudi nella camera di cottura, senza mai trascurare la massima attenzione riservata a lu palummàru. “Palummàru” era detta una serie di buchi intercomunicanti tra camera di combustione e camera di cottura, disposti a cerchio nel pavimento della camera di cottura vicino la parete esterna della fornace. Le tegole, disposte sempre in verticale, una accanto all’altra occupavano l’intero pavimento, tenendo conto dei vari buchi che dovevano lasciar passare la fiamma. Quando tutta l’area di base disponibile veniva occupata da tegole si procedeva a formare un secondo strato. Lo stesso criterio veniva adottato per tutti gli altri strati successivi che potevano arrivare a cinque. Era d’obbligo però chiudere il tutto e sovrapporre all’ultimo strato di tegole e piastrelle almeno due strati di mattoni pieni, posti in orizzontale, che fungevano da coperchio alla fornace. Ultimato il riempimento, gli operai ormai fuori, usciti da sopra la fornace, pensavano a chiudere in muratura, sempre con cocci di tegole e taju, il passaggio utilizzato servito a riempiere parte della fornace. La muratura così realizzata veniva rivestita con uno strato di malta di gesso.
Di tanto in tanto durante la cottura, un operaio esperto, con molta prudenza, si avvicinava alla sommità della fornace per verificare lo stato di cottura delle tegole che riconosceva dalla colorazione assunta dagli ultimi mattoni pieni di copertura. All’occorrenza, per rendere uniforme la cottura, lanciava su mattoni pieni già arroventati cocci di tegole colmi di cenere imbevuta d’acqua per spostare la fiamma in altre zone della fornace.
Percepita l’avvenuta cottura si arrestava l’alimentazione della camera di combustine e si lasciava raffreddare lentamente il tutto. Tegole ed altri manufatti si tiravano fuori dopo una settimana circa.

Particolari estratti dalla cartolina illustrata “Pietraperzia – Panorama”
Bbù̢rgiu (pl. Bbù̢rgia) era un enorme mucchio di paglia od altro, a forma rigorosamente geometrica, prevalentemente cono o parallelepipedo, che a volte arrivava e superava i 3 metri di altezza, con la sommità sistemata in modo da assicurare al contenuto protezione contro piogge e intemperie. Li bbù̢rgia, e se ne vedevano tanti, in vicinanza di fattorie agricole, presso abitazioni rurali di agiati coltivatori diretti, davanti alle semplici abitazioni di contadini che avevano scelto di vivere stabilmente in campagna, erano veri contenitori di fieno e/o paglia destinata all’alimentazione degli animali da soma. Bburgì̢si, letteralmente possessore di bbù̢rgia, voleva significare opulenza, benessere, ricchezza ed il termine, a Pietraperzia, si affibbiava a gente agricola benestante.
Li bbù̢rgia di issàra e di canalàra, realizzati all’interno o in prossimità degli spiazzi della loro industria, erano contenitori di combustibili per alimentare le fornaci: si realizzavano con paglia e scarti di paglia di ogni tipo di cereale.
Gli agricoltori costruivano a volte bbù̢rgia per mancanza di spazio al coperto e per soddisfare l’enorme richiesta di foraggio necessario a sfamare i tanti animali di allevamento e da soma Costruire u-bbù̢rgiu di finu non era difficile: bastava ricavare uno spiazzo pianeggiante, accostare i covoni nella quantità che si voleva, disposti a formare generalmente un rettangolo, sovrapporne altri fino all’altezza di tre metri circa o oltre e, alla sommità, rivestire il cumolo con paglia onde ottenere la copertura a botte o a spioventi fortemente in pendenza. A volte si copriva il tetto, o solo parti, con strisce di tessuto riciclato e si zavorrava con pesanti massi per limitare i danni che potevano essere prodotti da imprevedibili venti impetuosi.
Per costruire u-bbù̢rgiu di paglia la procedura non era altrettanto semplice. Prima bisognava dare forma alla paglia, sostanza amorfa; si cominciava con lo stenderla sullo spiazzo pianeggiante o reso tale e poi vi si ammucchiava altra paglia fino a superare un metro di altezza. La si pressava calpestandola o battendola con forconi o tridenti e poi si passava al taglio delle pareti. Prima a grandi bracciate si prelevava la paglia dai lati e la si buttava sopra al mucchio e poi con forconi, togliendo dai lati la paglia ritenuta in esubero, si ottenevano pareti, a volte, perfettamente verticali. Si continuava ad ammucchiare e pressare paglia sempre più in alto servendosi di scale a pioli appoggiate al cumulo in formazione. La professionalità di quella gente era così alta che riusciva a formare solidi perfetti, parallelepipedi sormontati da prismi, che a volte raggiungevano e superavano i tre metri di altezza. Alla fine, ritenuta sufficiente l’altezza, si passava alla realizzazione degli spioventi. Nella sommità individuata come spartiacque, alcuni sistemavano un serpentone di stoppie precedentemente preparato, grosso quindici-venti centimetri lungo la dimensione maggiore; altri due, uno a destra e l’altro a sinistra del primo li collocavano lungo gli spigoli per fungere da gocciolatoi. Alla fine si copriva il tutto con pula fortemente compattata e si passava volendo alla zavorratura di protezione. Le procedure di copertura erano diversissime e spesso venivano adottate tecniche strettamente personali.
Realizzare un bbù̢rgiu di issàra o di canalàra, per una serie di concause, era molto più faticoso e impegnativo. Li issàra e li canalàra non erano produttori di paglia e dovevano procurarsela. Ottenerne anche piccole quantità era quasi impensabile, dovevano accontentarsi degli scarti abbandonati dai contadini e anche per questo a volte subivano torture psicologiche: venivano assimilati a ladri se non avevano chiesto per tempo l’autorizzazione a prelevare ciò che era stato abbandonato.
Per esigenze insite all’attività, li bbù̢rgia di li issàra e di li canalàra dovevano essere costruiti in prossimità delle fornaci, e pertanto, a volte, la materia prima per arrivare a destinazione subiva lunghi trasferimenti. Il trasporto, dall’aia di produzione alle pertinenze della fornace, spesso lontana diversi chilometri, avveniva, per i gessai, a dorso degli stessi asini che prima avevano soddisfatto in paese le richieste di gesso dei clienti, a dorso di altri animali da soma ed ancora asini per i tegolai. Per mancanza di strade carrabili raramente venivano utilizzati i carretti. Il tragitto dall’aia alla fornace non si faceva per viottoli interpoderali, per abbreviare il percorso si attraversavano, senza al-cuna autorizzazione, diversi poderi privati. Generalmente i proprietari dei poderi tolleravano tale sopruso stagionale ma a volte si scatenavano delle diatribe che si concludevano, quasi sempre, benignamente con la cessione di qualche sacco di gesso o poche decine di tegole al proprietario del podere violato.
Per il trasporto li issàra e li canalàra non usavano li rutù̢na, grandi reti di corda con scannàgli usati dai contadini per trasportare grossi carichi di paglia, dall’ària a la paglialòra dall'aia al pagliaio, ma sacchi di paglia, sacchi fatti apposta per il trasporto della paglia.
Li rutù̢na sarebbero stati più vantaggiosi ma non erano adatti al trasporto degli scarti.
Li sacchi di ji̢ssu, sacchi per il trasporto del gesso, erano in tessuto di tela olona della capacità standard di due stai du tù̢mmina; dopo il riempimento non si legavano all’imboccatura, come si fa con i comuni sacchi, ma il tessuto in esubero, circa 25 centimetri fino all’orlo, si ripiegava sul contenuto, chiudendo il sacco come si fa con una busta.
Li sacchi di paglia, sacchi per il trasporto della paglia, anch’essi in tessuto di tela olona, erano molto capienti, muniti di circa tre metri di cordicella terminavano con quattro cappi equidistanti attaccati all’orlo superiore.
Dopo il riempimento vi si pressava all’interno più contenuto possibile e alla fine lo si rimboccava con grosse bracciate di paglia e si legava fortemente con la cordicella passante per i diversi cappi. Il peso di ogni sacco così riempito a volte superava i venticinque chili ma quando gli scarti erano sterrosi, (come sabbia) il peso diventava enorme per l’operaio che doveva sollevarlo dopo l’asfissiante operazione di riempimento. Se ne caricavano tre ad ogni animale da soma, asino o mulo, due ai lati e uno sul basto.
Al tempo della trebbiatura tradizionale li issara facevano il giro delle aie nelle diverse contrade limitrofe allo scopo di accaparrarsi, a scapito di altri concorrenti, paglia di scarto e se possibile, anche buona paglia. In presenza di aie di fave, trigonella finug̵ricu o veccia, insistevano per ottenerne tutta la paglia; sapevano che gli animali da soma non la gradivano e i contadini, anche se a volte la usavano per concimare il terreno, erano propensi a cederla in cambio di pochi tù̢mmina (stai) di gesso a qualche decina di canàla (tegole). Tale forma di baratto larvato, messo in atto dai contadini, veniva accolto benevolmente dai gessai e tegolai che soddisfacendo le loro esigue richieste raggiungevano il proprio obbiettivo. Le richieste erano veramente esigue: si chiedevano pochi tumoli di gesso o poche decine di tegole per riparare la manciatu̢ra di la stad̩d̩a o lu tettu di l’appinnata (la greppia della stalla o quella esterna sotto la tettoia), o per riparare la tannù̢ra (fornellone a legna della cucina) o la tucchjèna ( ripiano multiuso esterno addossato alla casa).
Una minima quantità di paglia di grano, di fieno greco, di veccia o di fave era necessaria per la stabilità di lu bbù̢rgiu quando si raccoglieva anche la pula. La sola pula, adoperata dai gessai, anche se fortemente compressa, sarebbe scivolata e venendo giù come frana avrebbe rovinato il parallelepipedo che si voleva costruire. Per evitare ciò, durante la costruzione, sistemavano ai margini la paglia più lunga e la si pressata in modo da fungere da parete per contenere la pula che successivamente vi si scaricava al centro.
I proprietari di fornaci optavano per questo tipo di combustibile perché era a buon prezzo e costava quasi niente. Realizzare u-bbù̢rgiu significava assicurarsi la produzione per l’anno a venire e garantire il sostentamento alla famiglia.
Capitava, e non di rado, che questi grossi serbatoi, realizzati a fatica e con grandi sacrifici, per ragioni diverse, invidia, oltraggio, vendetta, vandalismo od altro, andavano in fumo. E quando ciò avveniva era un dramma. Il danno economico enorme si riversava su tutti gli addetti alla produzione. Al danno non c’era alternativa: o arrestare la produzione per un anno, che significava rinunziare ad ogni forma di guadagno, compromettendo la sopravvivenza delle famiglie interessate, o ricorrere all’acquisto oneroso di altri combustibili. In questo secondo caso, che era quello a cui quasi sempre gli interessati ricorrevano, i proventi dell’attività subivano una drastica riduzione perché dal totale degli incassi bisognava sottrarre il costo del combustibili. Fortunatamente che le fornaci accettavano di buon grado qualsiasi combustibile. Bruciavano ligna di mìnnuli e d’aulì̢va fascine di mandorlo e di ulivo, scorci di mìnnula bucce legnose di mandorla, nùzzulu sansa, truppiḍḍù̢na tronchetti di legna da ardere, e scarti di ogni tipo purché combustibili.
Raccolta delle tegole già asciutte ed accantonate sulla piazzuola in attesa della cottura. Sullo sfondo della foto in biano e nero si vede la villa del Barone Tortorici in contrada Fondachello. Donna e bambino sono parenti della famiglia dell’operaio. 

Operaio impegnato allo stoccaggio delle tegole crude


Operai al lavoro sullo spiazzo davanti argilla essiccata pronta per la frantumazione. Dietro oltre alla donna si vede parte del fabbricato dei
Napoli e dei Tortorici. Per la frantumazione dell’argilla si usava una grossa e leggera mazza di legno màzzu

Cartolina illustrata anni '60 del 1900

Davanti In basso a destra un tratto della strada provinciale 191 con tre paracarri in pietra; più giù, oltre l’albero, tre “bbùrgia” e il caseggiato dell’azienda “ciaramitàru”. Vi si lavorava l’argilla estratta in loco e si producevano tegole, piastrelle, mattoni pieni, vasi e brocche. Nell’ingrandimento della parte interessata si possono evidenzia tre forme e dimensioni di “li bbu̢rgia” manufatti di allora che per anni caratterizzarono gli
agricoltori benestanti e l’artigianato di issàra e canalàra


Ex operaio, già emigrato all’estero, fattosi riprendere assieme alla moglie, nel luogo dove per tanti anni aveva svolto la sua attività. Alle sue spalle il locale per lo stoccaggio dei manufatti in attesa della cottura e davanti alle due porte, oltre alle sterpaglie che evidenziano l’abbandono, un mucchio d’argilla rimasto allora in attesa di essere frantumato. Ancora più avanti a terra e a destra una macchia nera segnala l’area dove insisteva la base della fornace. Tutto lo spiazzo pianeggiante era impegnato per la lavorazione e l’esposizione al sole dei manufatti. 


L’alto pennacchio di fumo evidenziava l’attività della fornace che continuava ad ardere ininterrottamente per 16/18 ore. Le persone attorno erano quasi
tutti addetti ai lavori. Quella che si vede nella foto è la parte fuori terra della fornace che già conteneva i pezzi da cuocere, ordinati con rigoroso criterio, (3000 tegole, 1000 piastrelle e 1400 mattoni pieni all’incirca). La camera di combustione a paglia, separata dalla camera di cottura, era alimentata da sotto da operai in ginocchio con lanci continui all’interno di pugni di paglia o di altro.
Dietro la fornace erano visibili i locali per lo stoccaggio dei manufatti e sullo sfondo la collina crestata delle “Rocche”. 


Michele Ciulla del 1912, uomo di consolidata ed indiscussa memoria visiva, testimone oculare di quell’attività artigianale, con questi tratti di grande valore artistico, descrive ed anima uno squarcio di vita che un tempo era al centro di quell’attività: tegole ad asciugare e da cuocere, operaio che impasta argilla, operaio che realizza tegole, attrezzi sul tavolo, parte della fornace fuori terra, bbu̢rgia.


GLOSSARIO

appinnàta sf. tettoia a sbalzo per fare ombra o riparare dalla pioggia.

bbù̢mmulu sm. orcio, recipiente di terracotta con due manici, simile e più piccolo della lancèḍḍa.
2. bù̢mmulu crù̢du, (termine offensivo riferito a persona) rozzo e di poco intelletto.

bbù̢rgiu sm. (pl. bbù̢rgia) enorme mucchio di paglia pressata, a forma di parallelepipedo, con la sommità sistemata in modo da costituire una protezione contro le intemperie. Bbù̢rgia se ne vedevano in gran quantità
presso fattorie, abitazioni rurali e cave di gesso: era un modo di conservare la paglia per tutto l'anno senza dovere ricorrere a locali chiusi.

calamì̢ta sf. calamita, magnete.
2. cappa e canna fumaria per imbrigliare fumi e portarli all'esterno.
3. presa d'aria, a condotta interrata, posta alla base della camera di combustione delle fornaci di gesso.

canalàru sm. tegolaio, costruttore o rivenditore di tegole.

canàli sm. (pl. canàla) tegola.
2. (canàli) curritù̢ri, tegola di scorrimento utilizzata nella parte concava per raccogliere e fare defluire l'acqua.
3. (canàli) cupìrchiu, tegola di copertura utilizzata nella parte convessa per convogliare la pioggia dentro li curritù̢ra.
4. lu canàli, costruzione, tuttora esistente, che convoglia e fa scorrere, attraverso 25 cannelle, l'acqua della sorgente S. Giovanni, permettendo ai Pietrini, prima della realizzazione della rete idrica (anni 30/40), di usufruire dell'acqua necessaria per i bisogni idrici di persone e animali.

càpu di vardù̢ni sm, corda del basto lunga 5 metri circa, serviva ad assicurare il carico al basto.

cchiàccu sm. (pl. cchiàcchi) cappio, laccio, nodo scorsoio.
2. fig. tranello.
3. cunżàri lu cchiàccu, preparare il tranello.
4. paràri li cchiàcchi a li cunì̢glia, predisporre lacci per la cattura di conigli.
5. cchiàccu di fù̢rca, delinquente.

cciàppa sf. sottile strato di terreno agrario su roccia.
2. attrezzo del gessaio: era formato da un lungo spiedo con semicerchio di lamiera di dieci centimetri di diametro, attaccato di traverso alla punta, adoperato per rimuovere la cenere, durante la cottura del gesso, nella fornace di li carcàri.
.
ciaramitàru sm. officina del vasaio.
2. luogo dove si lavora l'argilla.
3. fornace per la produzione di tegole e mattoni.
4. zona periferica di Pietraperzia, in contrada Piano Noce (di fronte all'attuale macello Comunale) e confinante con la zona Canale e con la zona Madunnùzza, dove fino agli anni '50 del secolo scorso vi erano fabbriche artigianali di tegole e mattoni di argilla.

cudèra sf. sottocoda, posola: cinghia di cuoio, larga 10 cm. circa, che veniva ancorata al basto dell'animale da soma, dopo averla fatta passare sotto la sua coda; aveva la funzione di mantenere fermo il basto sull'animale specialmente su strade o viottoli scoscesi

finug̶rìcu sm. trigonella.

furcèḍḍa sf. forcella, attrezzo agricolo costituito da un'impugnatura di legno a manico lungo e da una parte finale, di legno o di ferro, a forma di Y.
2. attrezzo usato dai gessai per spruzzare paglia nelle fornaci durante la cottura del gesso.
3. attrezzo domestico per appendere abiti.
4. legno della fionda.

g̶ràsta sf. (pl. g̶ràsti) vaso di terracotta per piante e fiori.
2. coccio di tegola o di terracotta.
3. parte finale di una brocca rotta (muzzù̢ni) usata come contenitore di acqua o di crusca per dare da bere o da mangiare alle galline.

issàru sm. (pl. issàra) lavoratore nella cava di gesso.
2. produttore e venditore di gesso.

lancèḍḍa sf. (pl. lancèḍḍi) recipiente di terracotta con due manici, di capacità intermedia tra la quartàra e lu bbù̢mmulu di cui è simile per forma.
2. lancèḍḍa di mù̢stu, recipiente usato per trasportare mosto.

lì̢gna sm. pl. legna da ardere.
2. fàri lì̢gna, cercare legna da ardere.
3. un fàsciu di lì̢gna, un fascio di rami secchi.

madù̢ni sm. (pl. madù̢na) mattone.
2. madù̢ni di crì̢ta, piastrella di terracotta per pavimenti.
3. madù̢ni di Valènża, piastrella smaltata usata per pavimentare e rivestire pareti.

maniù̢ni sm. arcione, legno di ulivo o di castagno, piegato a caldo ad U.
La sua conseguente stagionatura consentiva la cofezione del basto (vardù̢ni).

màzzu sm. mazzo, insieme di qualunque cosa.
2. màzzu di lavù̢ri, di fàvi, insieme di 20 covoni di frumento, fave o altro. Cinque stravulàti di quattro g̶règni formavano un màzzu.
3. màzzu di càrti, l’intera serie delle carte da gioco.
4. scopino di ampelodesmo usato dai pastori per la pulitura degli attrezzi destinati alla produzione dei latticini.
5. grosso martello di legno usato dai tegolai per frantumare l’agilla essiccata.

manciatù̢ra sf. mangiatoia, greppia.
2. guadagno illecito.

mìnnula sf. (pl. mì̢nnuli) mandorla.
2. mìnnuli mì̢si ràppi ràppi, abbondante infruttescenza di mandorle.
3. cì̢nniri di mìnnula, cenere potassica ricavata dal mallo delle mandorle, usata come detersivo.
4. mìnnula lug̶uisèḍḍa, varietà di mandorla.
5. mìnnula marzù̢ḍḍa, varietà di mandorla.
6. mìnnula muḍḍì̢sa, varietà di mandorla.
7. mìnnula di lu munżì̢ḍḍu, varietà di mandorla.
8. mìnnula niculètta, varietà di mandorla.
9. mìnnula nuciḍḍàra, varietà di mandorla.
10. mìnnula pizzù̢ta o mìnnula strazzavisàzzi, varietà di mandorla.
11. mìnnula sancisù̢ca, varietà di mandorla.
12. mìnnula san giuuànnì̢sa, varietà di mandorla.
13. mìnnula di la sciàrra, varietà di mandorla molto gustosa.
14. mìnnula siciliàna, varietà di mandorla.
15. mìnnula vì̢nci a ttù̢tti, varietà di mandorla.
16. bbèḍḍu spì̢cchiu di mìnnula amàra, soggetto poco raccomandabile, di buona apparenza ma di cattiva sostanza.

mòdulu sm. modello di legno su cui i tegolai pietrini modellavano le tegole (coppo siciliano)

nùzzulu sm. sansa, ciò che resta delle olive dopo l'estrazione dell'olio. Tale scarto organico veniva usato per ardere il forno.

pantòfalu sm. mattone pieno di terra cotta, si fabbricava anche a lu ciaramitàru.

pistulèna sf. striscia di cuoio o di resistente tessuto, passante sopra le natiche dell'animale e agganciata alla cudèra, per impedirle di scivolare verso il basso

pruvulàta sf. esplosione di una mina.

quartàra sf. (pl. quartàri) brocca di terracotta con due manici. Si differenzia da lancèḍḍa e da bbù̢mmulu solo per dimensione.
2. quartàra di żżì̢ṅġu, brocca di sottile lamiera di zinco.
3. fig. quartàra χaccàta: a) brocca lesionata; b) fig. persona malaticcia.
4. truzzàri la quartàra ccu lu mù̢ru, fig. detto del debole che voglia cozzare col potente, per sottolineare il fatto che è inevitabile che egli soccomba così come è inevitabile che si rompa la brocca sbattuta contro il muro.
Proverbio: la quartàra va all'àcqua fì̢na ca si rù̢mpi: chi persiste nelle malefatte è destinato ad essere scoperto.

stàḍḍa sf. (pl. stàḍḍi)  stalla, locale chiuso e coperto dove si tengono equini, bovini e altri animali domestici.

tàju sm. marna friabile di colore giallo pallido; impastata con acqua veniva usata come malta refrattaria per costruire e rivestire forni a legna.

tannù̢ra sf. (pl. tannù̢ri)  cucina,  uno o più fornelli a legna: era realizzata in malta di gesso e tondini di ferro su cui si poneva la pentola per cucinare. Sotto la pentola bruciava la legna ed il fumo veniva catturato da una grossa cappa in gesso comunicante col comignolo esterno, formato da tre tegole, disposte in verticale e leggermente inclinate con la parte convessa all'infuori.
2. nomignolo

truppiḍḍù̢ni sm. (pl. truppiḍḍù̢na) tronchetto di legna da ardere.

tucchjèna sf. sedile di pietra o in muratura, addossato al muro esterno di una casa di campagna, usato spesso come tavolo per deporvi il cibo da mangiare. 2. pianerottolo di accesso preceduto da pochi gradini.

vardù̢ni sm. (pl. vardù̢na) basto. Il basto veniva costruito artigianalmente da bastai (vardunàra): si prendeva lu maniù̢ni (arcione), fatto di legno di ulivo o di castagno, reso curvo a fuoco e già fatto stagionare adeguatamente: si preparava per le due parti di esso una copertura rettangolare in tessuto di olona, cucito nei laterali e lasciato aperto nella parte centrale per imbottirlo con fine paglia e reso rigido con un arnese di ferro (fuḍḍatù̢ri). Prima che il legno nudo venisse coperto dal tessuto di tela olona si attaccavano saldamente sullo stesso legno due corde di cinque metri ciascuna (càpi) mentre nella parte centrale si poneva altra corda (cchiàcchi) cucita su pezzi di cuoio di sostegno. Se il cuoio ricopriva tutta la parte centrale, oltre i laterali, si diceva: vardù̢ni ccu li fàlli; se il cuoio si cuciva solo nella parte bassa si diceva: vardù̢ni ccu li mèzzi fàlli. Elementi di collegamento indispensabili erano: cudèra, pistulèna e cì̢ṅġa.

vèccia sf. veccia, rampicante delle leguminose che serve come biada. Anche vì̢zza.

vurdunàru sm. mulattiere incaricato a raccogliere e a trasportare, con più animali da soma, le messi del padrone dall'aia alla masseria.


Giovanni Culmone

continua...


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20 gennaio 2018

CARCÀRI E CIARÀMITARU DI PIETRAPERZIA di Giovanni Culmone - 3^ Parte



I Tortorici a Pietraperzia



Padre Dionigi, storico locale, a pagina 340 del suo libro “Pietraperzia dalle origini al 1776”, nel capitolo dedicato a “Miracoli e Grazie concessi da Dio a’ Petrini ad intercession di Maria della Cava” riporta che Giuseppe Tortorici la mattina del Lunedi 20 Agosto 1775:

 «...portatosi al proprio forno delle tegole, ossivvero canali, non lungi da Pietrapercia, scesevi ad oggetto di ripulirlo, e situarvi le tegole crude: A pena cominciato aveva a sterrare, che sconquassato da ogni lato il forno di altezza 22 palmi circa, restò senza poterne uscire, sotto palmi ormai nove di sterro massiccio, dicendo solamente: “Maria della Cava ajutatemi”. Fu innumerabile la gente, che di ogni condizione, e sesso concorse ad un avviso così lagrimevole: iva la Genitrice con la famiglia del Turturici: ma giunta costei avanti la Chiesa di S. Domenico; (la chiesa del Rosario) incontrò chi l’esortasse a ritornar a casa per prepararla col solito lutto, come praticò, giacché (naturalmente discorrendo) il di lei figliuolo era d’un subito morto. L’Ingegniere dell’Università M. Giuseppe Fiore con altri Fabbri, e Manuali corse frettoloso più d’ogni altro, qual affine del Turturici, acciocché facendo scavar la terra, ritrovasse tantosto il Cadavere, per compiere la di lui funebre scena. Ed oh portento! Dopo tre ore, dacché toglievano sterro, udirono un affannoso sospiro, che tutti atterrì. V’era tutta la ciurmaglia, che lo raccomandava alla nostra Imperadrice, e vieppiù incalzavano le preghiere. Alla fine dopo altra ora e mezza, eccovi affacciar il capo quel creduto estinto, che altro non disse: “Viva Maria della Cava”. Lo presero intanto con grandissimo giubilo, rendendo lode alla divina liberatrice, e condottolo a casa vidde a occhi aperti sua madre, che con i suoi piangevalo, come Defonto colle mura della casa vestiti di lutto. Vi fu chi de’ fisici consigliò di doversi porre dentro un Crasto: Ma l’accorto Giovine volendo tutto il miracolo attribuire alla Regina della Cava, rifiutò con quella ogn’altra medicina, andando poco dopo per le strade a publicarlo col silenzio medesimo».

È certo che l’evento descritto e circostanziato, miracolo o meno, riguardante Giuseppe Tortorici tegolaio è una testimonianza storica ed evidenzia l’esistenza dell’industria della terracotta a Pietraperzia almeno dai primi anni del 1700.
Giuseppe Tortorici, rimasto sotto 2 metri (9 palmi) di macerie della fornace era nato il primo Giugno del 1752 e alla data dell’incidente era scapolo di 23 anni.
Essendo figlio d’arte il mestiere di tegolaio si può far risalire quantomeno al 1708 anno di nascita del padre.
Dalla descrizione si apprende, tra l’altro, la fornace era alta m. 5,72 (22 palmi circa, un palmo misura cm. 26), dimensione ben compatibile con le conoscenze e i riscontri attuali, cosa che avvalora e rende molto credibile la testimonianza.
È evidente che per continuare l’attività Giuseppe ricostruì la fornace e due anni dopo il 5 novembre 1780 sposò Anna Maria Puzzo da cui ebbe Vincenzo nel 1787 e Stefana nel 1789, morì il 23 marzo 1806 lasciando l’attività ai due figli ancora minori.
Il figlio Vincenzo nel 1827 sposò Rosaria Costa ed a seguire gli eredi diretti Gaspare del 1841, Giuseppe del 1891, Gaspare del 1921 e Giovanni continuarono l’attività artigianale fino alla chiusura dell’azienda avvenuta alla fine degli anni 1950.
Stefana, comproprietaria dell’azienda, nel 1808 aveva sposato Liborio Sollima da cui ebbe un’unica figlia sopravvissuta che appena sedicenne diventò moglie di Calogero Napoli che da neo proprietario continuò l’attività della terracotta a fianco dei Tortorici.
Rosaria Sollima figlia di Stefana Tortorici e moglie di Calogero Napoli muore il 7 Luglio del 1890, si può dire, alle soglie del XX° secolo.




I NAPOLI CO-GESTORI DELL’INDUSTRIA DELLA TERRACOTTA

Nella seconda metà del 1700 e fino ai primi anni del 1800 arrivavano a Pietraperzia molte famiglie provenienti da ogni dove perché attratti, oltre che dal clima salubre, dalla nomea di benessere che ne derivava da un vasto territorio agricolo molto fertile e produttivo. Ed è in questo contesto che Giovanni Napoli, proveniente da Licata, figlio di Giuseppe ed Agata, il 25 Maggio del 1806 sposa la pietrina Biagia Costa. Rimasto vedovo, il 27 aprile del 1815 si risposa con Maria, sorella minore della prima moglie. Nato a Licata nel 1784, muore a Pietraperzia all’età di 45 anni circa, dopo avere messo al mondo 8 figli di cui Vincenza che sposerà Salvatore Ferrugia, anche lui immigrato, proveniente da Campobello di Licata.
I figli maschi Antonino, Calogero e Giuliano sposano a Pietraperzia e originano tre lunghi filoni i cui eredi arrivano ai nostri giorni. Pare che i primi Napoli che si riscontrano a Pietraperzia, a partire dal 1711, non appartengano ai filoni originati da Giovanni.
Calogero, come già detto, appena ventenne, sposa Rosaria Sollima sedicenne, figlia di Stefana, Sorella di Vincenzo Tortorici, e come marito di Rosaria si ritrova comproprietario della fornace.
Da questo momento a Tortorici si affianca il Napoli e i neo proprietari benevolmente si assegnano gli immobili e così le aziende diventano due con ragioni sociali diverse.
Nel caseggiato ogni famiglia disponeva di locali propri d’adibire allo stoccaggio e alla messa in sicurezza dei manufatti da cuocere e di altri locali abitativi per le esigenze più immediate che a volte utilizzavano come dimore fisse. Ognuno dirigeva la propria azienda, disponeva di uno spiazzo davanti al caseggiato, di una fornace e di un pozzo nella zona per cavare l’argilla necessaria alla lavorazione.


ESTRAZIONE E LAVORAZIONE DELL’ARGILLA

I pezzi d’argilla, scavati nei pozzi non molto profondi, 2, 3, 4 metri, a secondo la convenienza, si lanciavano fuori per essere poi raccolti. A volte si portavano a spalla, dentro coffe, contenitori realizzati con palma nana siciliana, ragionevolmente maneggevoli, a volte con l’utilizzo di scale a pioli, venivano portati fuori a passamano per poi essere trasportati nello spiazzo per l’esposizione al sole.
Tutta l’argilla essiccata, poi ridotta quasi in polvere con l’aiuto di mazze di legno, màzzi, liberata da eventuali corpi estranei, conchiglie ed altro, si versava in contenitori, poco profondi 50/80 centimetri, scavati a terra, vi si versava acqua, fino a coprire di 3 o 4 centimetri il tutto e vi si lasciava macerare. Al momento opportuno, uno degli addetti, munito di pantaloncini corti o di sole mutande, entrava in buca e affondava i piedi nudi nell’argilla a ritmo costante, fino ad ottenerne un pastone omogeneo, indurito al punto giusto con l’aggiunta di altra argilla in polvere, fino a renderlo pronto per la lavorazione.


NASCITA DI UNA TEGOLA

Si portava sullo spiazzo dell’azienda il banco per la lavorazione: un normale tavolo di legno su cui erano adagiati: a destra dell’operatore il pastone d’argilla che si rimpinguava di continuo; a sinistra lo stampo in legno con manico mòdulu, poggiato su quattro mattoni pieni; fuori dal tavolo, più in basso, poco sollevato da terra, un recipiente con acqua. A centro del tavolo, tra il pastone e lo stampo mòdulu, vi si spargeva una manciata di cenere e un pugno di polvere d’argilla, per non fare attaccare la pasta della lavorazione al piano del tavolo. Vi si adagiava la finèstra, un telaio di circa 55 x 35 spesso 2 e con bordi che non superavano i 5 centimetri dotato di un anello di cordicella scorrevole lungo tutto il perimetro.
L’operatore, dopo avere prelevato, la giusta quantità d’argilla, la spingeva con forza nella finèstra, la livellava con un’assicella di legno, togliendo la parte in esubero, immergeva le mani nell’acqua del recipiente predisposto, si liberava dai residui d’argilla e con le mani bagnate rendeva perfettamente liscia la superficie visibile. Con molta perizia e bravura sollevava la finèstra con tutto il contenuto e dopo averlo sistemato al punto giusto sulla forma mòdulu, procedeva al taglio facendo scorrere l’anello di cordicella lungo il perimetro della finèstra.


La sfoglia ottenuta si adagiava sullo stampo mòdulu e ne assumeva perfettamente la forma. L’occhio esperto dell’operatore dava gli ultimi ritocchi, modificando qualcosa all'occorrenza, e poi, sempre con mani bagnate, rendeva perfettamente liscia la superficie visibile. 


Ultimate tutte le operazioni di rifinitura, sollevava il tutto, si portava sullo spiazzo e sfilando lo stampo mòdulu poggiava la tegola a terra e la lasciava ad asciugare. Tutte le tegole già asciutte venivano ben conservate fino al raggiungimento del numero che poteva contenere la fornace.
Una pioggia improvvisa sulle tegole esposte al sole sarebbe stata una vera iattura: avrebbe annullato il duro lavoro e cancellato tanti bei sogni perché avrebbe afflosciato tutto a terra e reso ogni manufatto irrecuperabile.

Giovanni Culmone

ontinua... 
 
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